Se non fosse da gufi patentati, si potrebbe parafrasare Ornella Vanoni: la musica è finita, gli amici se ne vanno, che inutile serata… Certo, di musica se n’è fatta tanta: trombe, tromboni, grancasse, marce militari. Ma, ammesso che Angela Merkel e François Hollande siano amici di bisboccia, hanno lasciato Matteo Renzi con tante parole e nessun gesto concreto. La più franca (e in questo senso davvero un’ospite cortese ma sincera) è stata la Cancelliera quando ha detto senza mezzi termini in conferenza stampa che è inutile chiedere altra flessibilità nelle finanze pubbliche: se ancora resta qualcosa (e la commissione di Bruxelles è convinta che tutti i margini siano già stati utilizzati) va cercato nei meandri del patto di stabilità, quello esistente che nessuno ha intenzione di cambiare. Hollande su questo non ha aperto bocca, la Francia del resto ha violato il patto per l’ennesima volta, accampando un suo statuto speciale e non riesce a portare a casa la riforma del mercato del lavoro che Renzi invece ha fatto ingoiare alla Cgil e alla sinistra del Pd (che poi nella sostanza coincidono).
Tanto rumore, tanti simboli spinelliani, tanti titoloni e paginate sui giornali, tanto spazio in tv, per nulla? Non esattamente. Qualcosa è emerso, più nella forma che nella sostanza. In ogni caso un lungo cammino resta da fare. Il 31 ci sarà un altro incontro con la Merkel a Maranello (altra scenografia simbolica e non del tutto azzeccata visto che la Rossa perde nonostante il pilota tedesco), poi bisogna preparare il vertice straordinario del 16 e 17 settembre: it is a long way to Bratislava (e vai con le metafore musicali).
Il messaggio comune è che la Brexit non ha fermato l’Unione europea. Ma dove andrà, come, con chi e con quale passo, nessuno è ancora in grado di prevederlo. La sicurezza, esterna e interna, è diventata prioritaria anche perché proprio su questo s’è giocata la campagna anti-Ue in Gran Bretagna e la si gioca in Francia, in Italia, nella stessa Germania. Si parla di mettere in comune l’intelligence e di accordi nell’industria della difesa (operazione impossibile questa senza i britannici con i quali tra l’altro è integrata l’italiana Finmeccanica). I tedeschi vorrebbero replicare se possibile il modello Turchia e Renzi ha colto la palla al balzo per ribadire la centralità italiana nel Mediterraneo. Vedremo dove porteranno tutte queste manovre difensive. Intanto è chiaro che la Francia non farà entrare uno spillo da Ventimiglia.
L’idea italiana di “esportare la sicurezza” per così dire, cioè andare nei Paesi d’origine dell’immigrazione non dispiace a Parigi fissata con la sua missione storica nella Francafrique, ma lascia fredda la Cancelliera che non ha nessuna voglia di immischiarsi in Siria, nel Medio Oriente tanto meno in Libia. Certo è che il modello turco non può funzionare nel Mediterraneo se non c’è una operazione strategica a monte e questa richiede uomini e tanti, tanti quattrini che nessuno ha o è disposto a dare.
Il che ci porta alla questione di fondo: la crescita. L’Unione europea è intrappolata in una lunga e melmosa stagnazione. La Germania ha fatto meglio, è vero, ma non abbastanza e in ogni caso anche la sua economia viaggia al di sotto del potenziale che potrebbe mettere in campo. L’austerità perinde ac cadaver ha lasciato il segno, ma il problema strutturale si chiama produttività. Lo ha detto Angela Merkel a bordo della Garibaldi e ha ragione.
L’Europa nell’ultimo decennio è rimasta tagliata fuori dalla nuova onda d’innovazione tecnologica e ha perso terreno anche là dove aveva acquisito un vantaggio verso gli Stati Uniti, come la telefonia mobile. Ciò riguarda anche i tedeschi o i Paesi scandinavi: la svedese Ericsson, pioniera dei ponti radio e dei telefonini, è in vendita e probabilmente finirà all’americana Cisco, il che la dice lunga su quel che è avvenuto nel vecchio continente, anche là dove l’euro non c’è e quindi non ha avuto nessuna funzione né propulsiva né depressiva.
Il caso italiano, da questo punto di vista, è la punta dell’iceberg. Il declino nell’industria e soprattutto nei servizi che oggi guidano la moderna manifattura è la conseguenza non del rigore di bilancio (che non è stato poi così rigoroso se guardiamo alla curva del debito e del deficit), ma del crollo della produttività. Lo dice da almeno dieci anni la Banca d’Italia, tutti applaudono a cominciare dagli industriali, ma nessuno reagisce. Il crollo dei tassi d’interesse ci ha fatto risparmiare 80 miliardi di euro. Dove sono finiti? In investimenti o in mance elettorali, nazionali e locali? Le riforme come il Jobs act possono dare un contributo, ma per recuperare bisogna agire in modo massiccio sul capitale (investimenti espansivi e innovativi) e sul lavoro (organizzazione, ritmi, abbandono delle guarentigie). Ora Renzi vorrebbe rilanciare i contratti aziendali, come ha fatto Hollande scatenando la rivolta dei sindacati. Vedremo. Certo è una riforma positiva, ma che non potrà essere usata per ottenere più deficit pubblico, replicando quel che si è fatto un anno fa.
Dunque, davvero a long way. Ammesso che sia chiara la direzione e che la si voglia imboccare davvero.