Intervista da Bloomberg News durante l’Eastern Economic Forum di Vladivostok, il presidente russo Vladimir Putin ha detto che Stati Uniti e Russia sono vicini a un accordo sulla lotta ai terroristi in Siria. L’intesa operativa è in discussione da mesi, a luglio il Washington Post aveva rivelato i dettagli di un documento riservato che avrebbe potuto fare da bozza per l’accordo, ma ci sono numerosi dettagli che devono essere chiariti, come per esempio chi inquadrare tra gli obiettivi, ossia chi sarebbero quei “terroristi”. Essenzialmente: per Mosca lo sono quasi tutti i gruppi ribelli che si oppongono al regime, per gli Stati Uniti ci sono ampi distinguo, anche perché diverse brigate combattenti ricevono o hanno ricevuto sostegno da Cia, Pentagono e alleati. Per il momento il punto di incontro è solo lo Stato islamico (che però la Russia non inquadra sempre al centro dei suoi bersagli) e gli ex qaedisti di al Nusra, ora trasformati però in una più potabile formazione che va sotto il nome di Jabhat Fatah al-Sham, che cerca spazio politico con la sponda del Qatar e che è legata con intenti operativi a vari gruppi che gli americani considerano moderati. Putin dice che occorre separare “la parte cosiddetta sana dell’opposizione” dagli estremisti, ma poi dal punto di vista pratico attacca indiscriminatamente qualsiasi formazioni combatta i lealisti, e questo per Washington è il più grosso degli ostacoli da affrontare. A destabilizzare i protocolli avviati un mese e mezzo fa, inoltre, l’ingresso delle unità combattenti turche nel nord siriano, anche se Putin dice che “saremo in grado di accordarci su qualcosa in un prossimo futuro e presentare i nostri accordi alla comunità internazionale”, includendo anche la Turchia (e la Nato) tra coloro che accetteranno di allineare i proprio interessi con l’intesa Mosca-Washington. Non è escluso che a margine del magniloquente G20 cinese, in programma tra domenica e lunedì, non ci sia un incontro diretto tra Putin e Barack Obama; il Cremlino ne ha già parlato, la Casa Bianca no.
Turchia e Russia si sono riavvicinate dal punto di vista diplomatico (sempre in Cina, previsto un altro bilaterale tra Putin e Recep Tayyp Erdogan), dopo una decina di mesi di tensioni per la vicenda dell’abbattimento del jet russo, uno spin-off del conflitto siriano. Ankara ha ammorbidito le proprie posizioni sulla necessità di una rimozione immediata di Bashar el Assad, accettando – pare – una fase di transizione del potere in cui il rais può ancora giocare il ruolo di una specie di ciamberlano per passare successivamente Damasco in mano a una leadership condivisa (tra americani, russi, turchi, sauditi, iraniani, eccetera: un gruppo abbastanza eterogeneo, difficile da allineare). Non è chiaro quanto Assad sia lieto di questa soluzione, o quanto sia un’idea solo turca, visto che non più tardi di aprile dichiarava di voler riconquistare “ogni pollice” della Siria — intanto sta accettando obtorto collo la presenza di militari turchi sul proprio territorio: sabato mattina i carri armati russi hanno scavalcato il confine accompagnando i ribelli amici verso al Rai, città che si trova a pochi chilometri da Jarablus, già oggetto di una missione per liberare quell’ultima fetta di territorio controllata dallo Stato islamico sul confine turco-siriano. Al di là delle dichiarazioni propagandistiche (tipo: il ministero del Turismo ha appena diffuso un video che invita i turisti ad andare in villeggiatura in Siria, #enjoy), è evidente che Assad stesso sa che se la Russia dovesse scendere a qualche patto, dovrà starci. Tra qualche giorno sarà l’anniversario del primo anno di guerra di Mosca in Siria. La missione per puntellare il regime è andata zoppicando: all’inizio un disastro, poi qualche buon guadagno territoriale per i governativi, ora di nuovo problemi, con Aleppo in stallo (tanto che i russi stanno pensando a un cambiamento tattico piazzando potenti bombardieri in Iran) e un’offensiva ribelle produttiva nell’area di Hama. Putin nell’intervista ha lodato il ruolo di mediazione svolto dal segretario di stato americano John Kerry, ed ha esortato gli altri poteri mondiali ad accettare un graduale cambiamento in Siria, piuttosto che spingere per il rovesciamento del leader del paese (la posizione definitiva di Washington sulla questione non è chiara per il momento). Ha citato gli esempi di Libia e Iraq, dove gli interventi a guida occidentale hanno imposto il regime change, ma il passaggio democratico è stato piuttosto complicato: “Dove si vedono elementi di democrazia in Libia?”. Obama sta per chiudere la propri storia politica e la finestra per arrivare a una bozza d’intesa operativa con la Russia, passaggio che è vistaìo come apripista per una più ampia soluzione politica della guerra civile, sta diventando ogni giorno più limitata.