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Le forze speciali americane aiutano i curdi siriani dove i turchi non vorrebbero

Su Youtube è stato pubblicato domenica 11 settembre un video che riprende alcuni uomini delle forze speciali americane a Manbij, una città della Siria settentrionale che è stata da poco liberata dall’occupazione militare dello Stato islamico; se ne ricorderanno le immagini, con le donne che toglievano il burqa nero per scoprire vestiti colorati e gli uomini che si facevano accorciare l’obbligatoria barba salafita mentre si fumavano sigarette in pubblico (vietate dal regime califfale).

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Il fatto che ci siano Sof (Special operations forces) statunitensi nell’area non è così sorprendente, hanno girato già altre immagini, il loro impiego è stato ufficialmente annunciato circa un anno fa dalla Casa Bianca, e i successivi aumenti del contingente sono stati altrettanto oggetto di dichiarazioni pubbliche dell’Amministrazione. Si trovano lì per dare supporto tecnico – anche se in alcuni casi potrebbero aver partecipato agli scontri – alla Syrian Democratic Force, una forza ombrello che raggruppa diversi gruppi combattenti, dove essenzialmente i curdi sono la maggioranza, ma ci sono anche arabi e siriaci inglobati per ragioni politiche: ossia, devono esserci perché alcuni villaggi sono più di etnia araba, e devono esserci perché la presenza dei curdi da soli potrebbe indurre a pensare che gli americani abbiano dato sostegno a un’operazione che ha un doppio fine, sconfiggere il Califfo e permettere al kurdistan siriano di riunificare sotto il proprio controllo il territorio rivendicato.

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Così non è formalmente perché la Turchia s’è sempre opposta a questa eventualità: Ankara considera le milizie curde siriane affiancate dagli operatori americani dei gruppi terroristici. È una delle grosse tematiche di scontro tra turchi e americani, che sono alleati – i primi temono che i successi militari dei curdi possano avere uno sbocco politico con il riconoscimento dell’indipendenza e dunque dare vento alle istanze interne rivendicate nelle regioni del sud. Anche per questo Ankara ha lanciato l’operazione Scudo dell’Eufrate, mettendo i propri soldati, inviati in appoggio di alcune formazioni ribelli fedeli, in mezzo alle due parti di territorio conquistate via via dai curdi con l’appoggio americano. Il punto formale numero uno delle richieste turche è che i miliziani curdi restino a est dell’Eufrate, così che non si crei continuità territoriale a la Turchia abbia una zona cuscinetto in cui operare liberamente. E qui sta l’importanza del video da Manbij. Perché Manbij è a ovest del fiume.

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Gli americani sostengono che le formazioni curde delle Sdf si sono ritirate da Manbij e hanno lasciato il controllo cittadino alle forze arabe alleate. Quelle immagini dicono invece che i combattenti curdi non solo sarebbero ancora nell’area (“Asayish Force” vengono chiamati nel video, e sono le forze di polizia del Rojava, la realtà statuale sognata dai curda nel nord siriano), e oltretutto stanno lì insieme agli esperti specialisti americani, i quali li stanno aiutando nelle attività di sminamento (a proposito di definizioni: le Sof Usa vengono sempre chiamate “della coalizione internazionale”, ma si sa che ci sono gli americani lassù). Le mine, le trappole esplosive sono una sorta di testamento di sangue che l’IS lascia una volta abbandonate le città occupate: hanno rallentato la ripresa di Ramadi in Iraq, stanno mettendo in stallo la presa finale di Sirte, sono un incubo per ogni passo che i soldati liberatori devono compiere a Manbij e in ovunque altra zona liberata.

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I combattenti curdi che parlano in questo video che ha la forma di un documentario/reportage sulle attività in corso, enfatizzano la presenza americana perché sanno che è un dispetto ad Ankara che li vorrebbe fuori da lì, ma nulla può perché con loro ci sono gli statunitensi. Lo chiamano “joint patrol” per supervisionare e mettere in sicurezza la città, parlano di piani medico-sanitari, e definiscono gli americani “nostri ospiti”: questa dev’essere una cosa che fa infuriare i turchi, che considerano i curdi siriani occupanti e invece loro parlano di Manbij come casa loro (non dev’essere d’accordo nemmeno Damasco, ma in questo momento il regime siriano gioca la partita in panchina). Addirittura si chiudono le immagini con uno dei miliziani curdi che dice “siamo felici qua”.

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Non è chiaro a quando risalgono le riprese del video, se fosse attuale la questione potrebbe aver ancora più carattere politico. Fin dal lancio della campagna Scudo, il 24 agosto, i turchi hanno chiesto esplicitamente agli americani di far ritirare i combattenti curdi dalle fasce occidentali al corso dell’Eufrate, e gli americani hanno acconsentito, girando l’ordine agli alleati. In teoria Ankara, che ha riaperto i suoi rapporti con Washington grazie a due incontri faccia a faccia del presidente Recep Tayyp Erdogan con Joe Biden (volato in visita) e con Barack Obama, ha proposto all’America di lanciare insieme l’attacco su Raqqa – che è la capitale siriana dello Stato islamico (anche se qualche giorno fa il New York Times ha scritto che era Aleppo, per poi correggersi e scrivere che Aleppo era la capitale della Siria, e poi correggersi di nuovo). In teoria, però, la missione su Raqqa gli Usa l’avrebbero pensata utilizzato le Sdf, ossia la coalizione di cui fanno parte i curdi: difficile che Ankara sia del gruppo, visto che ha più volte preso di mira i miliziani nel nord siriano. Su tutto però c’è un vuoto di fiducia: se gli americani lasciano i curdi a Manbij è perché credono che ce ne sia necessità tecnica, e forse anche politica, nonostante le volontà turche.

 

 

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