Skip to main content

Tutti i dettagli sui due lavoratori italiani rapiti in Libia

La mattina del 19 settembre due lavoratori italiani sono stati rapiti in Libia. Si tratta di due tecnici, Bruno Cacace e Danilo Calonego, che lavorano per la ditta cuneese Con.I.Cos: la vicenda è stata confermata dalla Farnesina, che ha allertato l’unità di crisi. Insieme a loro è finito tra le mani dei rapitori anche un altro lavoratore canadese, di cui è stato diffuso soltanto il nome di battesimo, Frank. Per il momento non ci sono state rivendicazioni o richieste di riscatto.

Cacace, 56enne residente a Borgo San Dalmazzo (Cuneo), e Calonego, 66enne della provincia di Sedico (Belluno), si trovavano nel sud della Libia, il Fezzan, nella città di Ghat, dove la loro ditta si sta occupando dei lavori di manutenzione alla pista dell’aeroporto locale. Sembra che la vettura su cui viaggiavano sia stata fermata da due pickup sulla strada montagnosa che collega Thala a Ghat, mentre si stavano dirigendo al lavoro. Stando a quanto riferiscono fonti libiche, le auto avrebbero bloccato quella con a bordo i lavoratori stranieri: a quel punto uomini armati li avrebbero prelevati e costretti a scendere, portandoli forse verso Ubari, un  villaggio che si trova più a nord, oppure nel deserto.

LE CARATTERISTICHE DELL’AREA

A quanto pare l’obiettivo non erano gli italiani nello specifico, ma gli stranieri in genere. La regione del Fezzan non è stata interessata fortemente dalle attività militari collegate alla guerra civile, ma piuttosto è un luogo dove l’apparente tranquillità è usata come cortina fumogena d’equilibrio per permettere lo svolgersi di traffici di contrabbando. Dalle sigarette alle armi fino al traffico di migranti, e sovente anche i rapimenti di persone, sono i metodi di guadagno di clan locali e gruppi criminali. Nell’area, che si estende verso il confine desertico con l’Algeria, con il Niger e con il Ciad si muovono anche diversi gruppi jihadisti, che la sfruttano per spostare rifornimenti e per costruirsi la trama di interessi intrecciata a quella degli attori clandestini locali. Nei mesi passati lo Stato islamico ha annunciato la creazione di una provincia locale: secondo alcune ricostruzioni, i baghdadisti in fuga per la massiccia campagna su Sirte, la roccaforte, si sarebbero anche dispersi in queste zone meridionali del paese. La polizia locale nega qualsiasi presenza del Califfato nelle aree del rapimento, abitate invece da tribù Tuareg: anche per questo si batte la pista della criminalità comune. Centrale è accelerare i tempi delle ricerche: si ricorderà che i quattro tecnici della Bonatti rapiti lo scorso anno a Sabratha, a qualche decina di chilometri da Tripoli, erano stati presi inizialmente da un gruppo criminale e poi passati e venduti al gruppo estremista che nella città aveva tenuto sempre un profilo soft — l’epilogo della vicenda fu tragico, con due di loro rimasti uccisi durante le operazioni per liberarli questa primavera.

LE ZONE D’OMBRA

Scrive Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera: “Molti punti risultano ancora oscuri sia sulla dinamica del sequestro, sia rispetto al ruolo svolto dai due tecnici. Si sa che da tempo lavorano per l’azienda e a Ghat si occupavano della manutenzione dell’aeroporto. Ma ad un primo riscontro effettuato dalla Farnesina non risulta che si fossero registrati nel Paese. Né si comprende come mai, dopo i numerosi appelli affinché chi si trova in Libia si muova sempre con adeguate misure di sicurezza, fossero a bordo di un auto senza scorta, solo con l’autista”. A tal proposito Repubblica ha qualche notizia in più, ottenuta da un certo Pier Luigi Racca, che “che per dieci anni ha lavorato in Libia, anche al cantiere dell’aeroporto di Ghat, e che conosce i due italiani rapiti con i quali ha anche lavorato”, scrive Rep: “Non si capisce il motivo per cui si sia deciso di togliere l’appoggio di guardie armate ai tecnici, ma sembra che la scelta sia stata fatta perché la zona veniva ormai ritenuta sicura” dice Racca che afferma di aver parlato con un referente del posto.

COSA FA L’AZIENDA ITALIANA

La Con.I.Cos, società di costruzioni di Mondovì, è attiva in Libia dal 1982: ha altre due sedi oltre a quella di Ghat, una a Tripoli e l’altra Bengasi. Già nel 2011 due dipendenti della ditta erano stati rapiti, e poi rilasciati. “Saggio da parte di Renzi non entrare in guerra, ma è ipocrisia cercare di tenere lontani gli italiani dalle proprie imprese in Libia. Tornerò presto per tutelare i miei interessi”, disse sei mesi fa alla Stampa Giorgio Vinai, titolare della Conicos, commentando il “consiglio” del premier di non rischiare dopo la morte dei due tecnici della Bonatti: “L’Italia lascia sole le piccole e medie imprese – attaccava Vinai – rivolgendo tutti gli sforzi a tutela degli interessi dei colossi”.

IL CONTESTO

Il quadro politico in cui si inquadra il rapimento è piuttosto complesso: l’Italia sostiene apertamente il percorso promosso dall’Onu che dovrebbe portare alla formazione di un governo di unità nazionale, ma in questo momento il progetto sta vivendo una delle crisi più profonde da quando è stato avviato. Mentre le Nazioni Uniti lavorano sulla rappacificazione delle due macrofazioni in competizione politica – un tempo in guerra aperta – a Tripoli, in Cirenaica, da Bengasi, un gruppo politico-militare guidato dal generale Khalifa Haftar ha mosso uno scacco verso le postazioni petrolifere centro-orientali, indebolendo il premier designato dall’Onu. In tutto questo procede l’operazione delle milizia misuratine, le migliori forze armate a disposizione di Tripoli, contro lo Stato islamico a Sirte: l’Italia ha inviato un equipe medico-militare per fornire assistenza diretta a questi combattenti che si stanno scontrando con i soldati del Califfato.

(Foto: Con.I.Cos Libya Branch, impianto di trattamento acque realizzato tra Ghat e Thala)



×

Iscriviti alla newsletter