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Perché gli Stati Uniti redarguiscono la Russia in Siria

“È difficile negare che la Russia stia collaborando con il regime in Siria nel compiere crimini di guerra”, ha detto l’ambasciatore di Londra alle Nazioni Unite Matthew Ricroft in un tweet. È una dichiarazione pesante, che segue di poche ore un’altra sullo stesso tono del ministro degli Esteri inglese Boris Johnson: la Russia potrebbe essere colpevole di crimini di guerra, è “sul banco degli imputati per l’opinione internazionale. Sono colpevoli di aver reso la guerra molto più lunga e molto più orrenda, e sì, quando un bombardamento [colpisce] obiettivi civili, dovremmo cercare di vedere se il targeting è fatto con la consapevolezza che sono del tutto innocenti obiettivi civili, [perché] in quel caso è un crimine di guerra”, ha detto Johnson. Domenica scorsa il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite s’è riunito per discutere quello che sta succedendo ad Aleppo in queste ore: l’ambasciatrice americana Samantha Power ha commentato al margine del vertice, voluto da Washington, Parigi e Londra, che quello che Mosca sta facendo “non è lotta al terrorismo, ma un barbarie”; quando Bashar al-Jaafari, il rappresentate siriano all’Onu, ha iniziato a parlare, Power, Ricroft e il collega francese François Delattre si sono alzati e hanno lasciato la sala. È questo il clima diplomatico attorno ai combattimenti.

LA PACE È IMPOSSIBILE

Sabato, in un incontro che si è svolto a Boston, il segretario di Stato americano John Kerry e i suoi omologhi di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, insieme all’Alto rappresentante europeo Federica Mogherini, hanno invitato la Russia a “prendere misure straordinarie per ripristinare la credibilità dei nostri sforzi, anche arrestando il bombardamento indiscriminato sul suo stesso popolo da parte del regime siriano, che continuamente ha minato gli sforzi per porre fine a questa guerra”. Venerdì il capo della diplomazia americana aveva avuto un altro incontro infruttuoso con il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, per cercare di salvare il salvabile di un tregua, in operatività dal 12 settembre, che resta in piedi soltanto sui tavoli negoziali: il più realista a proposito è stato il delegato russo all’Onu, Vitaly Churkin, che ha ammesso che in questo momento la pace in Siria “è impossibile”, solo che lui ha ovviamente (“ovviamente” per difendere la posizione del proprio paese) incolpato i gruppi ribelli combattenti, e dunque attaccato nemmeno troppo indirettamente gli Stati Uniti, che delle opposizioni dovevano essere i cani da guardia. Secondo Churkin, tra l’altro, il governo siriano ha avuto “una moderazione invidiabile” nel gestire la reazione a questi attacchi, e forse anche alla luce di certe dichiarazioni, quando la scorsa settimana Kerry ha detto a Lavrov che il suo paese viveva in un “universo parallelo” non era poi troppo un’iperbole.

SUL CAMPO

Sul campo la situazione è tragica: i racconti da Aleppo parlano della più violenta e massiccia serie di bombardamenti forse dall’inizio del conflitto – la memoria si perde, e anche chi segue le preziose cronache sui social network rischia di rimanere invischiato nel tremendo “qui e ora” (Aleppo ha già vissuto giorni infernali, non è quantificabile quali siano i peggiori, ma l’hashtag che gira è #AleppoHolocaust e chiarisce di per sé la situazione). Due giorni fa una parte di Aleppo è rimasta senz’acqua dopo che, secondo l’Unicef, un attacco aereo del regime aveva distrutto un impianto idrico in riparazione nell’area orientale della città, quella occupata dai ribelli: 200 mila persone senza acqua corrente, sempre secondo l’Unicef, rappresentano rischi “potenzialmente catastrofici”. I jet siriani (e forse anche russi) hanno sganciato anche le bombe-bunker, ordigni che riescono ad arrivare fino ai livelli sotterranei dove si trovano i rifugi. Sono stati colpite anche tre strutture mediche e due centri logistici degli “White Helmets”, la protezione civile volontaria che opera in varie zone della Siria controllate dai ribelli. Giovedì scorso, il giorno precedente dell’ultimo fallito incontro tra Kerry e Lavrov, il governo siriano aveva annunciato una nuova offensiva, che forse potrebbe prevedere anche operazioni di terra. Russi e siriani dicono di aver aperto corridoi di sicurezza per far fuggire i civili, ma questi ultimi raccontano che i lealisti gli hanno sparato addosso non appena si sono avvicinati alle vie di uscita.

SANGUE E FAME

Nel frattempo, circa centottanta chilometri più a sud, l’esercito siriano ha ottenuto un guadagno territoriale piuttosto importante ad Homs: l’ultimo gruppo dei ribelli presenti nell’area di Waer è stato costretto alla resa da un assedio stremante, e forzatamente deportato insieme alle proprie famiglie. Ci sono accuse da parte delle Nazioni Unite per la pratica aggressiva di Damasco, tuttavia il regime non ne sembra turbato e si gode la riconquista completa; è la prima volta negli ultimi cinque anni. “Rendere la vita intollerabile e la morte probabile, aprire una via di fuga e offrire un accordo a coloro che se ne vanno o si arrendono. Lasciare che la gente goccioli fuori [uno a uno]. Uccidere chiunque rimane. Ripetere finché un’area urbana, [resa] deserta, non sarà tua”, i giornalisti del New York Times Anne Barnard e Somini Segupta sintetizzano così la tattica di guerra che il regime di Bashar el Assad ha finora limitato ad per aree più limitate, in un articolo in cui delineano il macabro scenario dell’applicazione di questa tecnica nell’area ribelle di Aleppo, dove vivono però decine di migliaia di persone (è possibile che questo accada? Un indizio: i bombardamenti, come detto, si sono concentrati anche sulle sedi dei soccorsi).

LA CRISI DIPLOMATICA INTORNO

La fiducia tra Washington e Mosca è al limite, e la denuncia congiunta con i partner europei sulle complicità dei russi sui crimini di Damasco emessa sabato ne è una prova inconfutabile; in questa, Mosca viene accusata anche per l’attacco al convoglio umanitario di pochi giorni fa. E mentre giovedì il capo delle forze armate americane Joseph Dunford testimoniava in Senato che “non sarebbe una buona idea” aprire a operazioni congiunte – il Pentagono era sempre stato scettico su questa possibilità prevista dagli ultimi accordi di tregua, fosse anche che i russi si fossero rivelati honest broker – un ex colonnello russo scherniva sul Wall Street Journal una delle varie proposte avanzate da Kerry, la no fly zone sulla Siria: “Are you kidding?”, gli aerei sono la principale delle nostre forze in Siria, metterli a terra “vorrebbe dire rinunciare a colpire lo Stato islamico”. Il problema, a quanto pare, è che gli aerei russi e siriani non colpiscono lo Stato islamico: gli osservatori parlano di almeno duecento morti nell’ultimo weekend di guerra ad Aleppo, molti dei quali sono bambini.

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