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Cosa si sono detti (secondo me) Hillary Clinton e Donald Trump nel dibattito tv

È finito in pareggio il primo dibattito (sarebbe il caso di dire: la prima rissa) di questa notte tra Hillary Clinton e Donald Trump. E ora la partita elettorale è più che mai aperta: è il caso di ricordarlo a chi, ancora poche settimane fa, parlava di un Trump spacciato contro Hillary.

Si poteva pensare a un confronto centrato sul rendersi “accettabili” agli elettori, in particolare a quelli indecisi e indipendenti. Non è stato così. È stato invece un “demolition derby”, nel quale l’obiettivo di ciascuno è stato mobilitare il proprio campo, la propria “curva”, e appiccicare le etichette più sgradevoli sul petto dell’avversario. Solo in secondo piano, i due si sono dedicati a darsi un profilo in positivo: vedremo di che tipo.

Le etichette più negative efficacemente affibbiate da Trump alla Clinton sono state cinque. Primo: sei da trent’anni in politica (frase ripetuta ben cinque volte, ossessivamente), concetto ribadito nell’attacco finale (“hai esperienza, ma è una cattiva esperienza”). Secondo: vuoi aumentare le tasse, anzi sarai responsabile del più grande aumento di tasse di sempre. Terzo: hai tanto da nascondere, a partire dalle mail (ovazione del pubblico sulla battuta: “Darò la mia dichiarazione dei redditi se lei tirerà fuori le mail che ha distrutto”). Quarto: tu e Obama avete creato il vuoto in cui Isis è cresciuta (“quando eri segretario di stato, Isis era un bebè, guardate com’è ora…”). Quinto: non hai tempra e resistenza.

Sul fronte opposto, pure le etichette di infamia che la Clinton ha indirizzato al suo rivale sono state cinque, anch’esse assai efficaci. Primo: nascondi le tue dichiarazioni dei redditi perché non paghi le tasse. Secondo, sulle imprese di Trump: non paghi i tuoi fornitori e hai fatto bancarotta sei volte. Terzo: sei stato inquisito anche per questioni razziali, sei razzista. Quarto: hai mentito per anni, accusando Obama di non essere americano. Quinto: hai insultato le donne, hai detto che sono come “scrofe”.

Non troppo paradossalmente, visto il tenore del battibecco, i candidati hanno dedicato meno energia a darsi un profilo in positivo, ad “autocaratterizzarsi”. Nella prima parte del dibattito, Trump ha cercato di presentarsi come erede economico della tradizionale linea reaganiana: meno tasse, meno burocrazia. E in più ha sottolineato un altro connotato: una chiarissima posizione “legge e ordine” in materia di sicurezza pubblica. La Clinton, con altrettanta decisione, si è posizionata sul fronte opposto, schiacciandosi (pericolosamente, a mio avviso) verso la linea di Sanders: aumento di tasse per i ceti più abbienti, salario minimo, partecipazione dei lavoratori ai profitti delle imprese. E in più, scegliendo (per lei è qui che si gioca la partita) una chiara connotazione pro-donne, pro-neri, pro-minoranze razziali: esattamente le categorie e le fasce su cui la Clinton conta per battere Trump, tutto proteso a mobilitare – invece – un elettorato di maschi bianchi.

E il punto sta proprio qui, alla fine della fiera. E non credo sarà misurabile dai sondaggi tradizionali. Si tratta di capire quanto ciascuno sia riuscito a mobilitare il proprio zoccolo duro, a eccitare i già convinti. Mentre (la notizia di stanotte è questa) nessuno è sembrato farsi carico degli elettori indipendenti e intermedi rispetto alle “curve”.

Resta poi il “fattore umano”: lui a tratti travolgente e pure simpatico (“ho un carattere migliore di Hillary”), ma anche chiaramente confuso e improvvisatore sui temi più delicati (un autogol la sua complicata e prolissa ricostruzione delle sue stesse posizioni sulla guerra in Iraq). Lei secchiona e apparentemente ineccepibile: e però, incapace di nascondere un’ambizione personale smisurata, una naturale propensione al potere, un’appartenenza indiscutibile all’establishment e alle élites odiate dalle classi medie americane.

Forse, dopo i primi venti minuti, quando lei sembrava alle corde sulla questione delle mail, Trump avrebbe potuto fare di più. E in quel momento la Clinton è stata brava, dal proprio punto di vista, ad attaccare Trump sulle sue aziende e sulle sue opache dichiarazioni dei redditi. Entrambi – dunque – sono parsi efficaci all’attacco, ma fragili in difesa.

Dopo di che, per chi ama l’America, resta da capire come i due possano pensare di governare da queste posizioni. Lui con i suoi toni, e lei con questa piattaforma ormai così “sandersiana”. Ma la sensazione è che fino all’8 di novembre non sia questa la preoccupazione dei due rivali. Peccato.

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