Il premio nobel per la medicina quest’anno è stato assegnato a Yoshinori Ohsumi, un biologo cellulare del Frontier Research Center di Tokyo per i suoi lavori sull’autofagia (mangiare se stessi), ovvero il processo tramite il quale le cellule degradano e riciclano le componenti non più funzionali. Un pò come facciamo costantemente noi nelle nostre città civilizzate: scartiamo e ricicliamo.
Tanto per dare un’idea dell’importanza del fenomeno, ogni giorno il nostro corpo deve sostituire circa 200-300 g di proteine. Di queste, 70 g vengono sintetizzate a partire dagli elementi che assumiamo con la dieta. Le restanti vengono sintetizzate utilizzando componenti riciclate. Un vero esempio di green economy.
L’autofagia ha un ruolo chiave in molti processi cellulari come ad esempio la capacità di adattarsi a condizione di scarsità di nutrienti (affamamento) o la risposta alle infezioni. E il suo mal funzionamento è alla base di importanti condizioni patologiche come i tumori o le malattie neurodegenerative.
Già negli anni 50 alcuni scienziati avevano capito che alcune cellule animali usano processi autofagici per riciclare proteine e componenti cellulari. Ad esempio in particolari in condizioni di stress o quando i nutrienti scarseggiano. Ma i dettagli di questo processo non erano affatto chiari.
L’idea di Ohsumi è stata quella di studiare l’autofagia in un sistema modello, il lievito, che sebbene unicellulare utilizza molti processi biochimici fondamentali simili a quelli delle cellule umane. Il vantaggio del lievito è che permette di fare studi di genetica molto rapidamente. Ohsumi ha sviluppato un ceppo di lievito che mancava di un enzima che lui sospettava potesse avere un ruolo nell’autofagia. E il lievito mutato presentava nel citoplasma dei grossi vacuoli, ovvero delle specie di discariche cellulari circondate da membrane dove si accumulano i materiali che devono venir riciclati. Queste strutture in lievito sono solitamente così piccole da non poter viver osservate al microscopio ottico ma nel mutante diventavano enormi.
Ohsumi ha poi trattato il mutante con delle sostanze in grado di danneggiare il DNA allo scopo di isolare dei nuovi mutanti genici che non mostrassero più il vacuolo anche in condizioni di affamamento. L’interpretazione è che in questi nuovi mutanti fosse alterata la funzione di geni con un ruolo importante nel processo autofagico. Il suo studio, pubblicato su FEBS Letter nel 1993, ha portato all’identificazione di 15 geni. Successivamente, l’identificazione degli equivalenti umani ha aperto l’analisi del processo autofagico nell’uomo. Grazie agli studi di Ohsumi, oggi sappiamo che questi geni sono importati per lo sviluppo dell’embrione, per il differenziamento cellulare e per il sistema immunitario. E il loro mal funzionamenti può condurre a una serie di malattie come il cancro, il diabete e la malattia di Huntington. Ma anche l’invecchiamento.
Oshumi può venir considerato il padre di questo filone di ricerca. E come un vero padre fondatore ha trovato il modo di ricordare che l’analisi di un meccanismo così complesso è frutto del contributo di tutte le persone studenti e postdocs che in 27 anni hanno frequentato il suo laboratorio. La scuola di scienziati che lui cha formato continua a chiarire aspetti sempre nuovi di questo importante processo.
Il suo è un chiaro esempio di come la ricerca di base o “curiosity driven”, senza alcuna evidente immediata ricaduta applicativa sia importante per comprendere aspetti di fondamentale importanza per la salute.