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In Yemen gli Stati Uniti rischiano di impantanarsi in un’altra guerra

yemen

Tre giornalisti del New York Times, Mark Mazzetti, Ben Hubbard e Matthew Rosenberg, hanno firmato un articolo di contorno alla vicenda che ha coinvolto due cacciatorpediniere americani poco al largo delle coste delle Yemen. In breve, per chi se l’è persa: uno dei due destroyer è stato oggetto del lancio di razzi dalla costa per due volte nel giro di quattro giorni, senza conseguenze, comunque, per autodifesa e dimostrazione muscolare, l’altro mercoledì ha sparato tre missili da crociera contro tre postazioni radar che avevano aiutato a tracciare le imbarcazioni attaccate – almeno questo secondo le dichiarazioni del Pentagono.

Fonte: Nyt
Fonte: Nyt

L’attacco dalla terraferma è arrivato da aree controllate dalle forze che si sono ribellate al governo yemenita lo scorso anno: queste sono composte dalle unità combattenti di Ansar Allah, l’ala armata dei separatisti del nord, gli Houthi, che sono una setta indigena zaidita (un culto di origine sciita), e dalle milizie fedeli all’ex presidente Ali Abduallah Saleh (che ha trovato sponda tra gli insorti per far valere con le armi le ragioni contro la sua deposizione, avvenuta nel 2012). Il pezzo dei tre giornalisti americani, che rispettivamente coprono National Security, Medio Oriente e Pentagono per il giornale più venduto del mondo, sostiene che l’attacco alla nave americana è un conseguenza di come i ribelli “ci vedono”. E questo perché gli Stati Uniti formalmente non prendono parte alla guerra, ma danno aperto sostegno alla campagna a guida saudita con cui diversi paesi arabi sunniti sono intervenuti in aiuto militare all’ex governo di Sana’a. Ossia per i ribelli gli americani sono nemici. In realtà Washington si limita a fornire consulenza di intelligence che aiuta a individuare i target per i cacciabombardieri sauditi o emiratini in missione sullo Yemen, ed esiste una sala operativa congiunta a Riad e altre due in Qatar e Bahrein (a queste consulenze partecipano più o meno indipendentemente anche francesi e inglesi).

Fonte: Nyt
Fonte: Nyt

Questa collaborazione è stata già motivo di imbarazzo per gli americani, perché gli aerei sauditi&Co. in Yemen hanno colpito molto spesso i civili (oltre 4000 i morti da marzo dello scorso anno) e altrettanto spesso obiettivi non militari: domenica al centro del mirino c’è finito il funerale del padre di Jalal al Rawishan, ministro dell’Interno dell’auto-proclamato governo Houthi (oltre 140 morti, quasi tutti civili). Oltre all’impegno operativo dalle seconde linee, gli Stati Uniti danno sostegno militare anche continuando a vendere armamenti a Riad. Armi di cui l’Arabia Saudita abbisogna perché dice che la situazione in Yemen mette fortemente a rischio la propria sicurezza nazionale: ma sullo sfondo non va sottovalutato che i sauditi, sunniti, combattono nel sud della Penisola Arabica un altro fronte della guerra settaria per procura contro gli sciiti iraniani. Teheran ha collegamenti con gli Houthi, sciiti, mentre il governo regolare era filo-sunnita: d’altronde era stato proprio un notabile dei Guardiani della Rivoluzione, il gruppo militare che risponde alla guida teocratica iraniana, a dire lo scorso anno che in questo momento Teheran controlla quattro capitali in Medio Oriente, riferendosi a Beirut, Baghdad, Damasco e Sana’a. Non è effettivamente chiaro, o dichiarato, quanto la Repubblica islamica sia impegnata a supportare i ribelli (probabilmente, ma è un supposizione, in misura minore di quanto le forze saudite&Co. stiano cercando di combatterli).

Le brigate Ansar Allah dei ribelli stanno usando certamente anche armi sottratte all’esercito regolare yemenita, e dunque, probabilmente anche quelle di fabbricazione americana, visto che Washington finanziava l’esercito di Sana’a perché impegnato nella repressione della feroce filiale qaedista locale, a cui è stato affidato il compito degli attentati all’estero – per capirci, è quella che ha rivendicato le azioni alla redazione di Charlie Hebdo. Tuttavia, scrive il Nyt, “come il conflitto è andato avanti, ci sono state maggiori evidenze di un sostegno militare iraniano. Lungo il confine tra Yemen e Arabia Saudita, i ribelli hanno iniziato a utilizzare missili anticarro, razzi a spalla e fucili da cecchino dello stesso tipo utilizzato dalle milizie iranian-backed in Iraq e in Libano”. Ciò nonostante per il momento il Pentagono non ha spiegato che tipo di missile sia stato indirizzato contro le navi americane: potrebbero essere anche armi presenti nell’arsenale dell’esercito regolare, ma molti analisti credono si sia trattato di un C-802 iraniano.

C’è proprio l’Iran alla fonte del coinvolgimento americano in Yemen, perché questo impegno serve a Washington più che come bilanciamento per soddisfare l’alleato-Arabia Saudita dopo averlo scontentato con la firma dell’accordo sul nucleare iraniano. Però “gli attacchi di questa settimana” scrivono i tre del Nyt, “e la risposta del Pentagono, mostrano quanto rapidamente gli Stati Uniti possono passare da essere un giocatore di supporto e a disagio, a un partecipante attivo in una guerra civile caotica”. Foreing Policy nel suo Situation Report scrive che situazioni come queste sono “master-class” del modo in cui un paese può ritrovarsi coinvolto in guerra senza volerlo. Insomma, i ribelli in Yemen non distinguono le sottigliezze politiche dietro alla presenza americana, ma semplicemente percepiscono gli statunitensi come nemici e per questo li bersagliano, potrebbero tornare a farlo anche procurando danni e a quel punto cosa succederebbe?

Non bastasse, c’è la complicazione geopolitica, perché in seguito al contrattacco statunitense Teheran ha inviato la fregata “Alvand” e la nave appoggio porta-elicotteri “Bushehr” per monitorare da vicino la situazione. La Alvand è assidua dell’area di Aden, proprio lì lo scorso anno puntò i propri cannoni antiaerei contro un elicottero Seahawk della US Navy, e poi gli fece un video.

Forse Washington percepisce che la situazione potrebbe degenerare. E allora, mentre ufficialmente continuerà il supporto a Riad, e gli Stati Uniti si sono già riservati la possibilità di colpire nuovamente i ribelli se dovessero finire sotto minaccia diretta, un anonimo funzionario ha detto al Washington Post che l’America sta facendo pressioni dietro le linee della diplomazia affinché l’Arabia Saudita accetti incondizionatamente un cessate il fuoco e collabori attivamente con le posizioni più moderate dei ribelli per costruire un processo politico per il futuro.



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