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Tutte le sintonie fra Obama e Renzi (mentre Grillo e Salvini guardano a Putin)

E’ il Pd di Matteo Renzi uno dei ultimi partiti in Italia che non faccia dell’antimericanismo una bandiera? La domanda sorge spontanea alla luce delle scelte e delle dichiarazioni di cui continuano a rendersi protagoniste alcune delle principali forze politiche del nostro Paese. Mentre oggi il premier incontra negli Stati Uniti Barack Obama, il MoVimento 5 Stelle prepara un tour internazionale che terminerà a Mosca e che non passerà per gli Stati Uniti. E Matteo Salvini, dal canto suo, non perde occasione per riaffermare la sua preferenza per Vladimir Putin. In realtà però – racconta a Formiche.net il politologo ed economista Carlo Pelanda – le cose sono molto più semplici di così: “Se queste forze politiche avessero un’influenza diretta o indiretta sul governo italiano, è assai probabile che finirebbero con l’assumere una posizione molto diversa. Chiunque governi in Italia, non può fare a meno di un rapporto bilaterale privilegiato con gli Stati Uniti“.

Eppure – per rimanere alla stretta attualità – il movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, pur ribadendo per bocca di Luigi Di Maio la sua equidistanza tra Russia e Usa, nelle prossime settimane farà tappa a Mosca e non negli States. Niente di preoccupante o definitivo, taglia corto Pelanda, per il quale su queste tematiche “il M5S si presenta più che altro come un animale sconosciuto. Certo è possibile che se arrivi al governo introduca una netta discontinuità nella politica estera italiana. E’ possibile, ma è altamente improbabile“. Lo stesso discorso – sottolinea l’esperto geopolitica e relazioni internazionali – dovrebbe applicarsi anche alla Lega salviniana: “Alcuni partiti stanno utilizzando argomenti che possono apparire antiamericani come il rapporto con la Russia o il no al TTIP. Ma lo stanno facendo per semplici motivi di contingenza, per interessi politici interni“.

Un conto è il linguaggio, anche duro, che talvolta viene usato nel dibattito pubblico da alcuni partiti. Tutt’altro conto sono però le scelte concrete di politica estera. Dall’atlantismo non si torna indietro, anche perché l’Italia avrebbe molto da perdere e pochissimo da guadagnare: “Questa è la nostra linea ormai da cinquant’anni. Una linea ideata da Giulio Andreotti e condivisa anche dai grandi imprenditori italiani, che ha contribuito in modo fondamentale allo sviluppo economico del Paese“. Il rapporto privilegiato con gli Usa – spiega Pelanda – coincide largamente con gli interessi nazionali: “Ed è complicato ipotizzare che chi vada al governo – cinque esso sia – non tenga questa tradizione in debito conto“.

Rimane, però, il tentativo da parte di molti partiti italiani di trovare interlocutori internazionali al di fuori dell’asse con gli Stati Uniti: “E’ naturale. Per ogni forza politica è molto importante avere alleati esterni in modo da poter aumentare il proprio peso specifico. E’ quanto sta facendo ad esempio Salvini, che ha scelto Marine Le Pen e aderito al progetto russo di cercare di sabotare la relazione bilaterale tra Europa occidentale e Stati Uniti“. E’ questo uno degli elementi a cui si presta maggiore attenzione negli Usa: il tentativo da parte di Cina e Russia di frenare l’integrazione tra il Vecchio Continente e gli States: “Vogliono evitare a tutti i costi che venga firmato il TTIP che procurerebbe ad entrambi i Paesi un evidente svantaggio. E per farlo non esitano a sostenere quelle forze politiche che si potrebbero definire irrazionali o discontinuiste in politica internazionale“. Questa sarebbe in particolar modo la strategia di Putin: “Ha una paura matta che l’asse tra Stati Uniti ed Europa si rinforzi. Per questo cerca di assumere costantemente un ruolo centrale, attraverso una capacità che è soprattutto di interdizione“. “In ogni ufficio dell’amministrazione a stelle e strisce” – afferma ancora il politologo – “c’è scritto che qualsiasi competitore o nemico degli Usa vorrà per prima cosa sperare l’America e l’Europa occidentale“.

Oggi Matteo Renzi, come si diceva, è stato ricevuto a Washington, ultimo capo del governo dell’era Obama ad essere accolto alla Casa Bianca: il segno del rapporto privilegiato che esiste tra Italia e Stati Uniti e della stima che lega il presidente americano all’ex sindaco di Firenze. Dietro questa visita però c’è di più, come ha sottolineato il Washington Post secondo cui l’obiettivo di Obama è rinforzare il ruolo italiano all’interno dell’Unione Europea. Un’analisi che Pelanda condivide in pieno: “L’enfasi con cui si guarda all’Italia non dipende dalla preoccupazione per il quadro politico interno. Quello che si chiedono in America è su quali amici poter contare in un’Unione Europea che non si capisce bene dove voglia andare“.

Un processo che nell’ottica statunitense passa anche attraverso il rafforzamento di Renzi, come emerge abbastanza chiaramente da quanto Obama ha dichiarato nel corso del suo incontro con il presidente del Consiglio a proposito del referendum costituzionale: “Siamo d’accordo sul fatto che bisogna concentrarsi sulla crescita per la prosperità delle persone: Matteo sta facendo le riforme in Italia, a volte incontra resistenze e inerzie ma l’economia ha mostrato segni di crescita, anche se ha ancora tanta strada da fare. Ci sarà un referendum per ammodernare le istituzioni italiane che può aiutare l’Italia verso un’economia più vibrante“.

In questo senso, dunque, è il destino di Bruxelles la preoccupazione più pressante degli Stati Uniti: “Il principale interlocutore europeo degli Usa è da sempre la Germania, mentre l’alleato più importante è il Regno Unito“. A seguire ci sono Spagna e Italia “di cui gli Stati Uniti si fidano ma che, però, non rappresentano i Paesi più potenti dell’Europa continentale“. Ciò nonostante l’amministrazione americana ha deciso comunque di puntare sull’Italia: sia perché il Regno Unito, dopo la Brexit, è destinato a pesare sempre meno in Europa, sia perché la fiducia di Washington nei confronti di Berlino è scarsa, per non dire inesistente: “Non si fidano assolutamente perché la Germania persegue con evidenza una politica dei due forni caratterizzata una strategia che definirei mercantilista“.

Da qui la scelta “di rinsaldare i rapporti con l’Italia“, pure con un occhio interessato a ciò che avviene nel Mediterraneo. D’altronde, “gli Stati Uniti hanno perso da tempo la Turchia, mentre la Grecia conta poco e la Francia si è dimostrata inaffidabile. E’ logico quindi che ci rinforzino anche per verificare cosa siamo in grado di fare in quello scenario“. In quest’ottica qualche punto l’Italia sembra averlo acquisito durante la gestione della crisi libica del 2011, quando – racconta Pelanda – “decise di sacrificare il suo interesse nazionale per rimanere leale alla Nato. Sono cose molto importanti, anche perché in questa materia a contare maggiormente è ciò che pensano i tecnici, che poi trasferiscono queste convinzioni ai politici“.  D’altro canto – anche in questa complessa fase a Tripoli – “l’Italia è stata brava perché è riuscita a depotenziare il progetto dei francesi e degli inglesi per il dopo Gheddafi“. Una strategia molto apprezzata a Washington perché ha mostrato come l’Italia rappresenti “un’affidabile alleato della Nato, ma anche un Paese con una sua politica estera autonoma da rispettare“.

Ma è giusto affermare che anche l’Italia, al pari della Germania, abbia messo in campo talvolta una politica cerchiobottista tra Stati Uniti e Russia? “Non è così“, risponde Pelanda: “L’Italia non ha mai fatto una politica dei due forni, non la può fare e non la farà mai. Semplicemente – avendo dimostrato di essere un alleato di ferro – ha ottenuto uno spazio di autonomia in politica estera, soprattutto nella relazione con la Russia“. Un rapporto, quello con Putin, che negli Usa viene in fondo valutato in modo positivo: “A Washington sono ben contenti che l’Italia – di cui si fidano – abbia buoni rapporti con Mosca con cui è necessario tenere aperti canali formali e informali di comunicazione“.


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