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Eugenio Scalfari spiffera il Sì di Sergio Mattarella al referendum costituzionale

Sergio Mattarella

Dobbiamo alla puntualità degli appuntamenti domenicali di Eugenio Scalfari con il suo pubblico, fortunatamente salvati dall’editore Carlo De Benedetti e dal direttore di Repubblica Mario Calabresi dopo la minaccia del fondatore di rinunciarvi per sostanziale protesta contro le modalità dell’ultimo avvicendamento alla guida del giornale, la conferma degli umori –quanto meno questi- favorevoli sul colle più alto di Roma al sì referendario alla riforma costituzionale.

Del Senato così com’è, o come si è ridotto con la fine dei vecchi partiti e la frantumazione di quelli che ne hanno preso il posto, non è più soddisfatto o convinto, pur con tutto il rispetto per i signori senatori in carica, per carità, neppure il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che in un recente incontro probabilmente conviviale proprio con Scalfari al Quirinale deve averne parlato abbastanza chiaramente. Un incontro precedente il fortunato viaggio di Matteo Renzi alla Casa Bianca americana ma non per questo superato, visto che anche il presidente uscente degli Stati Uniti, presumibilmente informato dai suoi uffici di governo del contenuto del referendum indetto in Italia per il 4 dicembre, ne ha auspicato, anzi sponsorizzato il successo.

E’ evidente che anche Obama si è fatta un’idea poco incoraggiante di come funziona in Italia il bicameralismo cosiddetto paritario. E non condivide l’esaltazione che ancora qualcuno ne fa in Italia usando come argomento il funzionamento del quasi, molto quasi uguale bicamercalismo americano. Che è comunque compensato da ciò che i furbacchioni o gli ignorantoni del no referendario non dicono o ignorano in Italia: il sistema presidenziale felicemente operante negli Stati Uniti. Il cui presidente ha sempre l’ultima parola, che in Italia invece Mattarella non ha. E non l’hanno avuta nemmeno alcuni dei suoi predecessori che avevano una gran voglia, diversamente da lui, di prendersela.

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A quest’ultimo proposito, basterà pensare, per esempio, a Giovanni Gronchi, che si rifiutò di firmare i decreti di nomina di prefetti e ambasciatori senza che il governo li concordasse prima con lui. E prese ad occuparsi di politica estera mandando spesso di traverso il caffè al ministro competente, che era il liberale Gaetano Martino. O ad Antonio Segni, redarguito di troppe ingerenze durante una crisi di governo da chi poi, per sopraggiunta infermità, ne prese il posto: Giuseppe Saragat, che non fu meno decisionista o interventista di lui.

Non parliamo poi di Sandro Pertini, che faceva venire il cardiopalma al Segretario Generale del Quirinale e amico Antonio Maccanico ogni volta che gli portava via dalle mani un fascicolo per gestirlo personalmente. O di Francesco Cossiga, che una mattina fu tentato dall’idea di mandare i Carabinieri al Consiglio Superiore della Magistratura non per rafforzarne il ruolo decorativo nelle sedute ma per sgomberarne l’aula se gli illustrissimi signori consiglieri, fregandosene di una sua diffida in veste di presidente del consesso, si fossero permessi di discutere il ruolo e le prerogative del capo del governo allora in carica. O di Oscar Luigi Scalfaro, trattenuto a stento dai suoi collaboratori dopo che era stato tentato dalla voglia di sciogliere la Camera che aveva appena osato negare a scrutinio segreto l’autorizzazione all’arresto di un ex ministro sospettato dai magistrati di poter inquinare le prove a suo carico durante le indagini cui era sottoposto per tangenti e quant’altro.

Persino Giorgio Napolitano ha avuto problemi, se non tentazioni. Nei nove anni trascorsi al Quirinale, i sette ordinari più i primi due del settennato rinnovatogli nel 2013 ma da lui stesso interrotto per stanchezza, egli è stato chiamato dai suoi critici ed avversari non per scherzo, come facevano gli amici, ma per davvero “Re Giorgio”.  Di cui alcuni forcaioli dovettero accontentarsi di sentirlo come testimone, e non come imputato, davanti alla corte trasferitasi da Palermo al Quirinale per una delle tantissime udienze del processo che si trascina da più di tre anni e mezzo –ripeto, più di tre anni e mezzo- sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista del 1992-1993.

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L’unica cosa che sembra inquietare Mattarella, come anche Scalfari, degli effetti di una eventuale vittoria del sì referendario del 4 dicembre -che dalla sponsorizzazione di Obama potrebbe avere tra l’uno e il due per cento in più, con un margine che il fondatore di Repubblica definisce “marginale” ma anche “importante”, ricorrendo pure lui ad un ossimoro- sta fuori e non dentro la riforma. E’ la famosa legge elettorale della Camera nota come Italicum. Di cui Scalfari ha chiesto la modifica per poter votare sì al referendum, con un tono però che è andato via via riducendosi un po’ perché un impegno in questo senso è stato alla fine assunto da un Renzi originariamente sordo all’argomento, un po’ perché una commissione istituita nel Pd per predisporre una formale proposta dovrebbe concludere i propri lavori entro la nuova settimana, anche se il percorso parlamentare non potrà che compiersi dopo il referendum, e un po’ perché, male che vada, è opinione ormai largamente diffusa, anche fra gli avversari del presidente del Consiglio, che un taglio all’Italicum sarà comunque apportato, sempre dopo il referendum, dalla Corte Costituzionale.

I giudici del Palazzo della Consulta si trovano già investiti dell’attuale legge elettorale della Camera per ricorsi ad essi pervenuti dalla magistratura ordinaria, su istanza di chi ne ha contestato alcuni contenuti ritenendoli difformi dagli orientamenti espressi dalla stessa Corte quando bocciò parti della vecchia legge, nota come Porcellum ed ancora applicabile se al referendum vincessero i no e il Senato dovesse rimanere com’è: nelle funzioni, nelle dimensioni e nel metodo di elezione.

Ma se la riforma costituzionale dovesse essere approvata, i giudici della Consulta sarebbero chiamati d’ufficio a pronunciarsi su ogni nuova legge elettorale approvata dal Parlamento, prima ch’essa possa essere applicata. E’ una delle modifiche apportate alla Costituzione e sottoposte alla verifica referendaria.



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