Le riflessioni del professor Luca Ricolfi, da molti anni, sono un punto di riferimento e uno stimolo per molti. E lo sono giustamente, a mio personale avviso: per il suo approccio culturalmente aperto, non conformista, mai dogmatico, lontano dagli schemini del politicamente corretto.
Qualche settimana fa, sul Sole 24 Ore, Ricolfi ha raccontato di aver superato una sua personale resistenza (quella a firmare “appelli” di qualunque natura), e di avere sottoscritto un documento a difesa del liceo classico, e quindi – a maggior ragione – della prova scritta di latino e greco.
Ovviamente condivido, ma condivido anche di più le ragioni addotte da Ricolfi, che sintetizzo con parole mie: perché la versione di greco e quella di latino (così come, su un altro piano, la matematica) rappresentano non solo una prova di “organizzazione mentale”, ma soprattutto sono una cosa difficile, un test vero, un esercizio impegnativo. Dice Ricolfi: se le aboliamo, cosa vogliamo invece, solo cose facili?
Per una strampalata (ma forse no, come vedremo) associazione di idee, mi è tornato in mente un punto essenziale delle tesi psicologiche di Alfred Adler. Adler è – ai primi del Novecento – uno degli allievi eterodossi di Freud, e nella sua opera principale (“La psicologia individuale”: un autentico caposaldo, a mio modestissimo avviso) spiega come buona parte delle nevrosi individuali nascano da complessi di inferiorità più o meno efficacemente mascherati. In modo consapevole o no, l’individuo è indotto a cercare di “nascondere”, “mascherare”, “occultare” il proprio sentimento di inadeguatezza. In qualche caso emblematico, l’operazione riesce talmente bene da “rovesciarsi” in modo trionfale: Napoleone piccolo di statura ma grande imperatore, Demostene balbuziente eppure grande oratore, eccetera.
Ma nella stragrande maggioranza dei casi, purtroppo, le cose vanno diversamente. Ecco perché (anche qui sintetizzo con parole mie) per Adler diventa cruciale l’educazione dei ragazzi. Occorre insegnar loro a non scansare le difficoltà, a misurarsi sempre con gli ostacoli, a non elaborare “strategie di aggiramento”.
Ecco, un secolo dopo, è come se questa tendenza individuale fosse divenuto il tratto e la cifra di un’intera epoca, la nostra. Forse è il caso di chiederselo: che succede se un’intera civiltà decide di scansare le cose difficili, di sottrarsi alle prove più impegnative?
Non c’è da “processare” nessuno: si tratta di capire, ovviamente. Il trionfo degli strumenti “visual” (prima la tv, poi il pc, ora lo smartphone) è inevitabile, e – inevitabilmente, appunto – porta alla velocità, alla superficialità, a tempi ristrettissimi di lettura. Secondo le ultime ricerche, il lettore medio dedica non più di 10-12 secondi (ripeto 10-12 secondi!) alla lettura di qualunque contenuto su Internet: a mala pena guarda titolo e sottotitolo.
Lo ripeto ancora: non c’è da colpevolizzare o colpevolizzarci, da flagellare o autoflagellarci. Ma occorre comprendere dove stiamo andando, o forse dove siamo già. E anche domandarsi (se questa è la tendenza, e se non si fa nulla per correggerla, o almeno integrarla) quanto sia inesorabile il declino del nostro Occidente.