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Dirigenti statali, ecco le falle della riforma Madia

Con lo schema di Decreto legislativo recante la disciplina della dirigenza pubblica in applicazione dell’articolo 11 della legge 7 agosto 2015, n. 124, viene introdotta una riforma della Dirigenza pubblica, che non solo non assicura il buon andamento, l’efficienza e la trasparenza della Pa ma stravolge fondamentali principi, consacrati nella Costituzione, da sempre affermati con forza dalla giurisprudenza, vanificando gli effetti di una sentenza del Giudice delle leggi (Corte Costituzionale, sentenza n. 37/2015) e infrangendo i fondamentali principi di democrazia (uguaglianza, imparzialità, parità di trattamento, buona amministrazione) su cui la nostra Costituzione si fonda.

In sostanza, la riforma prevede modifiche al D.ls. n. 165/2001 (Testo Unico Enti Locali), che consistono:

in tema di apporto di lavoro e qualifica dirigenziale, nell’introduzione della possibilità, per le amministrazioni pubbliche, in relazione alla loro complessità organizzativa e alla necessità di coordinare diversi uffici dirigenziali, di articolare gli uffici dirigenziali in diversi livelli di responsabilità, anche introducendo la distinzione tra incarichi dirigenziali generali e altri incarichi;

nella previsione della costituzione del rapporto di lavoro di ciascun dirigente con contratto di lavoro a tempo indeterminato, stipulato con l’amministrazione che lo assume, all’esito delle procedure di cui agli articoli 28, ’28-bis e 28-ter (per corso-concorso selettivo di formazione, nonché per concorso, senza nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica e nel rispetto dei vincoli finanziari in materia di assunzioni a tempo indetermina), con contestuale iscrizione nei Ruoli di cui all’articolo 13-bis (Ruolo dei dirigenti statali, Ruolo dei dirigenti regionali e dal Ruolo dei dirigenti locali; sono, dunque, previste la creazione di ruoli unificati e coordinati statali, regionali e locali e l’eliminazione della distinzione in due fasce separate;

nella modifica dell’art. 19 del D.lg. n. 165/2001 e l’introduzione dell’art. 19 bis, che consente alle Amministrazioni di conferire gli incarichi dirigenziali corrispondenti agli uffici dirigenziali “definendo i requisiti necessari per ricoprire i relativi incarichi in termini di competenze ed esperienze professionali, tenendo conto della complessità, delle responsabilità organizzative e delle risorse umane e strumentali ….” e di conferire a soggetti non appartenenti ai Ruoli dirigenziali, mediante procedure selettive e comparative ed entro un determinato limite, gli incarichi non assegnati attraverso i concorsi o le procedure di cui all’ articolo 19-ter;

nell’istituzione della Commissione per la dirigenza statale, operante, con piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione, presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, con il compito, tra l’altro, di nomina delle commissioni per l’esame di conferma dei vincitori del concorso ai sensi dell’articolo 28-ter, comma 5, di procedere alla preselezione dei candidati ai fini del conferimento degli incarichi dirigenziali generali, secondo le previsioni dell’articolo 19-ter nonché di esprimere parere obbligatorio e non vincolante sulla decadenza dagli incarichi in caso di riorganizzazione dell’amministrazione;

nella modifica dell’art. 21 del D.lgs n. 165/2001, in materia di responsabilità dirigenziale, con la previsione delle ipotesi di mancato raggiungimento degli obiettivi senza, tuttavia, prescrivere un sistema di valutazione della dirigenza.
Ad opinione di chi scrive, dietro la riforma si cela la “legalizzazione” dell’egemonia delle pubbliche amministrazioni e dell’abuso dello strumento degli incarichi dirigenziali.

In altri termini, ai sistemi di accesso agli alti gradi dirigenziali del concorso (l’unico in grado di assicurare la selezione dei migliori) e del corso-concorso, si affianca la “scelta” a opera della Pa, attraverso gli incarichi dirigenziali, che, ai sensi dell’art. 19 bis, con l’espressa previsione della possibilità di conferire, sia pure a tempo determinato e previo esperimento di una procedura comparativa con avviso pubblico (sul cui concreto espletamento la legge nulla dice), incarichi dirigenziali a soggetti non appartenenti ai suddetti Ruoli, stabilizza una pratica di cui, troppo spesso, già sotto il vigore della previgente normativa, le Amministrazioni hanno fatto abuso.
Quindi, il legislatore, invece di fissare il principio, così come prescritto dal terzo comma dell’art. 97 della Costituzione, secondo il quale alla carriera di Dirigente sia accede soltanto per concorso, come avrebbe dovuto fare, in ossequio al “dictum” della Corte Costituzionale (sentenza n. 37/2015), rafforza l’istituto degli incarichi dirigenziali, che da strumento temporaneo atto a far fronte a situazioni peculiari, secondo la previgente normativa, diviene, con la Riforma, istituto stabile che può essere anche utilizzato per coprire i posti non assegnati attraverso i concorsi, sia pur, come si è detto, in via temporanea e con non meglio specificate procedure selettive.

Il descritto schema di riforma della Dirigenza pubblica, consolidando i poteri delle Amministrazioni con l’attribuzione alle stesse di ampie facoltà di procedere agli incarichi, viola detti principi e, ad opinione di chi scrive, pone seri dubbi di legittimità costituzionale, offrendo, per di più, il fianco alla Pa per abusare dei suoi poteri e del diritto.
Ciò si deduce anche dalle previsioni di un sostanziale ruolo unico dei dirigenti, sia pure sotto forma della creazione di ruoli unificati e coordinati statali, regionali e locali, e delle commissioni per la selezione dei dirigenti nonché dalla mancanza di un ruolo intermedio tra quello degli impiegati e il ruolo dirigenziale.

La mobilità, in senso verticale ed orizzontale, dei Dirigenti connesso alla creazione del ruolo unico, avrebbe il deleterio effetto di creare un “dirigente precario” (esposto al rischio di essere trasferito presso un’Amministrazione diversa da quella di appartenenza) e non indipendente a causa degli strapoteri attributi alla citata Commissione.
Quanto a quest’ultima, costituita con decreto del Presidente del consiglio dei ministri, alla quale sono state assegnate delicate funzioni di garanzia del procedimento di conferimento e di revoca degli incarichi dirigenziali, si osserva come – ed, in tal senso, si è espresso il Consiglio di Stato nel parere del 14.10.2016, trasmesso al Governo sullo schema di decreto legislativo riguardante la dirigenza pubblica- alcuni dei suoi componenti potrebbero non essere del tutto indipendenti dagli organi politici.
Ne deriverebbe, quindi, ad opinione di chi scrive, la precarietà e la non totale indipendenza del Dirigente sul quale penderebbe la spada di Damocle del trasferimento per mobilità.

A giudizio di chi scrive, pertanto, nel Decreto legislativo vi è una grave mancanza: l’assenza della previsione di un ruolo intermedio tra impiegati e Dirigenti, con la conseguente possibilità che le funzioni dirigenziali siano assunte dai “non dirigenti”. Tale sistema viola i descritti inderogabili principi costituzionali, a scapito del buon andamento e dell’efficienza dell’agere amministrativo per cui sarebbe auspicabile introdurre un’area quadri, analogamente a quanto è previsto per il rapporto di lavoro privato.
In conclusione, la Riforma trasforma i dirigenti in “precari” (alla mercè della Pa, a scapito del cittadino e dell’efficienza della Pa) e i poteri della Pa in arbitrio. Come tale, essa pone dubbi di legittimità costituzionale.

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