La cosa più intelligente che Donald Trump – il vincitore delle presidenziali americane martedì – dovrà fare subito “è contattare i nostri alleati e rassicurarli per le politiche a lungo termine” degli Stati Uniti: è questo secondo Richard Haass il primo grande impegno a cui dovrà sottoporsi il (futuro, perché sarà operativo da gennaio) nuovo inquilino dello Studio Ovale. Haass è dal 2003 presidente di uno dei più storici think tank americani, il Council on Foreign Relations, tempio/pensatoio da cui negli anni sono uscite molte delle linee politiche sostenute dall’America nel mondo.
QUEL CHE FAREI FOSSE TRUMP
Non “farei la mia prima chiamata a uno come Vladimir Putin, per esempio”, ha detto durante il programma “Morning Sqawk” della Nbc (nota: per lungo tempo si è parlato di discutibili relazioni tra Trump e la Russia, e Putin si è subito congratulato con la vittoria). Dovrebbe invece “chiamare gli inglesi, i francesi, i tedeschi, i giapponesi, i coreani, gli israeliani” e dirgli: “Non vedo l’ora di ascoltarti, di lavorare insieme, e non dare eccessivo peso alle cose che sono state dette durante la campagna elettorale”. Sempre alla Nbc Haass ha detto che Trump ha bisogno di concentrarsi sul rapporto con l’Iran, grande nazione con mire geopolitiche riqualificata diplomaticamente dopo l’accordo sul nucleare siglato dall’amministrazione Obama (su cui Trump non ha mai lanciato invettive contrarie come altri repubblicani), e soprattutto con la Cina (su cui invece Trump è stato duro). Sul piatto pechinese commercio, economia, stabilità nel Pacifico (problemi: le isole contese nel Mar Cinese) e della Corea del Nord (folle minaccia atomica).
NELLA LISTA DEI PAPABILI
Trump non ha mai dato indizi su chi curerà, o dettagli su chi ha curato durante la campagna, la linea di politica estera per i suoi Stati Uniti. Nell’agosto del 2015 però il magnate newyorkese, due mesi dopo aver annunciato formalmente la sua candidatura, ha avuto un colloquio privato proprio con Haass, e a marzo di quest’anno ha dichiarato di apprezzarlo molto, e di considerarlo una delle poche persone di cui rispetta le analisi (sulle vicende internazionali). A Haass, essendo il capo di un’organizzazione apartitica e indipendente, non è consentito esprimere pubblicamente i propri endorsement politici, ma non ha mai avuto una posizione escludente nei confronti del candidato repubblicano, come invece hanno fatto altri suoi colleghi. Fondato nel 1921, il Cfr è una realtà iconica: nel corso della storia molto dell’establishment americana è passata di lì. Anche durante la campagna per le ultime presidenziali, incontri riservati e pubblici del Council hanno visto come protagonisti l’élite in corsa, dal senatore repubblicano della Florida Marco Rubio, a quello democratico della Virginia Jim Webb, il primo sconfitto alle primarie, il secondo ritirato (con una nota: rappresentante dei blue collar del suo Stato, veterano di guerra dei Marines, Webb ha poi appoggiato Trump). Tra i protagonisti di summit e iniziative del think tank diretto da Haass c’è stata anche la front-runner democratica Hillary Clinton, e poi il governatore dell’Ohio John Kasich e Jeb Bush, altri due dei repubblicani spazzati via da Trump. Per cercare di darsi uno slancio (cercare “rilevanza” scrisse Newsweek) aveva scelto il Cfr pure il governatore del New Jersey Chris Christie, uno che era scomparso dai radar dopo essersi ritirato dalle primarie il 10 febbraio, anche se il 28 dello stesso mese aveva dato il proprio endorsement a Trump: restato sotto traccia durante il resto della campagna (su di lui si scherzava che era andato a votare senza nemmeno qualcuno che lo fotografasse), è poi riapparso, chiamato sul palco dallo stesso Trump, durante il discorso della vittoria. Possibile per Christie un ruolo di governo (forse chief of staff dicono i rumors, o attorney general), così come si pensa che Haass possa avere qualche incarico ufficiale all’interno dell’Amministrazione: la CNN lo mette nella lista dei papabili come Segretario di Stato, ma sono ipotesi basate su indiscrezioni e speculazioni. Possibile che Trump peschi per il Dipartimento di Stato anche tra i “Never Trumpers”, ossia i politici repubblicani che gli hanno voltato le spalle: la riconciliazione con il partito è una necessità reciproca, ed è stato lo stesso Haass a tenerla in considerazione come una delle prime mosse di cui Trump dovrà occuparsi. Ossia, un’altra di quelle rassicurazioni, simile a quella da dare agli alleati, che il presidente del Cfr pensa sia da dare subito per far capire che certi atteggiamenti, certe sparate, erano soltanto frutto della campagna elettorale e lasceranno il futuro a comportamenti più presidenziali.
IL MONDO DISORDINATO
Haass è in edicola con un libro che parla di come le policy in politica estera per gli Stati Uniti potranno incastrarsi con la crisi dell’ordine globale (“A world in disarray” è il titolo). Una questione delicatissima che il nuovo presidente dovrà affrontare, tenendo conto che “c’è ben poco consenso negli Stati Uniti su come rispondere a questo”, come ha spiegato alla National Public Radio ad inizio di settembre. Una volta, intervenendo alla cerimonia di laurea degli studenti dell’University of New Hampshire ha detto che molti americani “non sembrano apprezzare il legame tra ciò che accade all’estero e quello che succede at home“, e questo potrebbe essere a posteriori uno degli strappi esistenti tra alcuni argomenti della politica, gli Esteri, e il paese reale, molto più interessato a dare priorità a questioni terrene (il lavoro, l’economia interna, il funzionamento statale, e via dicendo). Qualche tempo fa, intervistato dal New York Observer – giornale di destra di cui è proprietario il genero di Trump, Jared Kushner, e che non ha dato l’endorsement al candidato repubblicano – Haass aveva affrontato la questione lateralmente, sostenendo che è comprensibile che alcuni cittadini americani ritengano la spesa per la Difesa, o quella per sostenere la Nato (entità che Trump ha definito “obsoleta”), non funzionali alle proprie necessità. Il tema in America è importante, l’eccezionalismo internazionale è tradizione di governo tra repubblicani e democratici, e forse Trump è uno dei primi ad aver capito che questo tipo di atteggiamento aveva stancato i cittadini, meglio un isolazionismo “America first”, niente più “nazione indispensabile” per gli equilibri globali. Haass aveva avvisato che la Brexit sarebbe stata “un campanello di allarme” per Clinton, che avrebbe dovuto “stare attenta alle spinte nazionalistiche e populiste di natura sia politica che economica, deve capire come affrontare efficacemente questo sentimento populista che reagisce a una percezione di minaccia che viene dall’immigrazione”. In queste ore si accomuna spesso la decisione uscita dal referendum nel Regno Unito con le elezioni americane: giovedì è stato lo stesso Haass in un tweet ad accomunare le due scelte, quella della Colombia sul referendum con cui si chiedeva la pace con le Farc, e quella che vedrà gli elettori italiani chiamati a decidere sulla riforma costituzionale.
Brexit, Colombia, US vote-all suggest that Italian referendum on political reform unlikely to pass. If so, would add to EU, western disarray
— Richard N. Haass (@RichardHaass) 9 novembre 2016