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Massimo Bitonci, ecco chi e come ha davvero silurato il sindaco leghista di Padova

Non c’è miglior difesa dell’attacco. Nella Lega lo sanno bene, come dimostra il caso Padova: il più grande capoluogo di provincia amministrato dal Carroccio e perso in una notte da lunghi coltelli, con pezzi di Forza Italia ed ex alleati più o meno civici del sindaco sfiduciato Massimo Bitonci che si recano dal notaio insieme a Pd e 5 Stelle per decretare la caduta del primo cittadino. E il diretto interessato che fa? Va al contrattacco. Spara a zero contro i “traditori”, promette di ricandidarsi direttamente dal palco di Firenze dove ieri è intervenuto alla manifestazione leghista del No al referendum costituzionale. E con lui il leader Matteo Salvini, che ha tentato con un tweet in extremis di salvare l’amministrazione di Padova nella fatidica notte di venerdì minacciando la rottura a tutti i livelli dell’alleanza con Forza Italia. La Lega rilancia e ruggisce, fa la voce grossa e pure un po’ la vittima, consapevole che il problema politico stia anche in una Forza Italia ormai divisa in due: tra chi ritiene imprescindibile l’asse con il Carroccio (vedi Giovanni Toti, il governatore azzurro della Liguria), e chi invece vuole tenere le distanze dai leghisti temendo la sudditanza (in questo caso, il parlamentare padovano Nicolò Ghedini e il coordinatore di Fi in Veneto Marco Marin, accusati di aver tramato contro Bitonci).

IL CARATTERE DI BITONCI

Se Bitonci non ha raggiunto nemmeno il giro di boa di metà mandato, qualche responsabilità ce l’avrà pure lui, secondo i berlusconiani. Il carattere dell’ex senatore e presidente della Liga Veneta, anti-tosiano per eccellenza (sfidò il sindaco di Verona al congresso nazionale del partito risultandone sconfitto), non lo ha aiutato a costruire un clima sereno in giunta. Lo raccontano le cronache quotidiane della stampa padovana, che lui non ha mai molto amato (memorabile la polemica sugli accessi dei giornalisti in Municipio). Duro, scontroso, poco incline al compromesso, “un ducetto” gli hanno detto gli ex alleati. Ma può un politico così spigoloso, decisionista e accentratore fare sintesi tra forze politiche diverse e amministrare una città? Sembrerebbe di no, vedendo l’epilogo padovano. Eppure dal Carroccio accusano che il problema non è il carattere di Bitonci, bensì i traditori azzurri pronti a “vendersi” al nemico. Va detto però che a voltare le spalle al primo cittadino sono stati anche leghisti ed esponenti della sua lista civica.

PROBLEMI POLITICI: STADIO E OSPEDALE

Ci sono però due problemi prettamente politici che hanno contribuito alla caduta del sindaco salviniano, peraltro ai vertici delle classifiche di popolarità e consenso tra i cittadini (vessillo questo che lui continua a sventolare convinto di rifare il bis alle urne anticipate in primavera prossima). Il primo è quello del nuovo ospedale, per il quale proprio ieri mattina Bitonci ha scritto nero su bianco l’accordo per la cessione gratuita da parte del Comune delle aree di Padova Est alla Regione. Non c’era scritto in nessun passaggio del suo programma elettorale che si sarebbe dovuto fare in quella zona, anzi il candidato della Lega si era impegnato nella ristrutturazione del vecchio sito di via Giustiniani. Poi il cambio di location, sostenuto dalla Regione di Luca Zaia, e una coda infinita di polemiche.
Discorso analogo per lo stadio di calcio: Bitonci prima ha vagheggiato l’idea di un restyling dell’Euganeo, dove attualmente gioca il Padova, poi l’idea di ristrutturare l’impianto Plebiscito (dove gioca la squadra di rugby) sulla falsariga dell’Allianz Arena di Monaco, per farne la casa del Padova Calcio ma senza chiarire quale futuro avrà l’Euganeo.

TENSIONI CON GLI ALLEATI

Il carattere duro, le divergenze sulle scelte amministrative. E infine i difficili rapporti con gli alleati. In meno di due anni Bitonci ha perso tre assessori: il primo è stato Flavio Rodeghiero, assessore alla Cultura in quota Lega Nord, dimessosi ufficialmente per motivi professionali e personali, in realtà anche per le divergenze con il sindaco su alcuni progetti. Poi è stata la volta di Alessandra Brunetti, eletta con la lista Bitonci e cacciata dalla giunta direttamente dallo stesso primo cittadino. Infine alcuni mesi fa il benservito all’ex assessore di Fi Stefano Grigoletto, con il quale aveva condiviso l’intera campagna elettorale, una mossa che ha incrinato in maniera irrimediabile il rapporto con Forza Italia.
Nel frattempo, Bitonci ha perso pezzi anche in consiglio comunale. Come accaduto con il giovane Riccardo Russo, eletto nella civica del sindaco poi andatosene di recente e ricoperto di insulti, oppure come con il capogruppo di Ri-Fare Padova Antonio Foresta. Ma il colpo finale lo ha inferto Maurizio Saia, fino a ieri assessore alla Polizia municipale, un ex senatore di An cresciuto nell’Msi che si era candidato al primo turno sostenuto anche da gruppi centristi, salvo poi sostenere Bitonci al ballottaggio. La nomina a comandante dei vigili urbani di Antonio Paolucci, già comandante a Cittadella dove Bitonci è stato sindaco, Saia non l’ha mai digerita. Così è stato il quarto assessore perso in due anni, e con la sua uscita di scena (condita da un esposto in Procura) a decretare la fine dell’amministrazione Bitonci ci si è messa anche la sorella e consigliera di maggioranza Fernanda Saia, che il sindaco aveva piazzato nel Gruppo Misto per puntellare la sua maggioranza ma che ha messo la sua firma tra quelle dei 17 consiglieri che davanti al notaio hanno lasciato Padova senza sindaco.

COSA INSEGNA IL CASO BITONCI?

Se lo chiedono, o meglio se lo dovrebbero chiedere in tanti all’interno del centrodestra. Di sicuro, un sindaco pupillo di Salvini ha fallito nella sua missione, nonostante tutte le colpe che possono avere gli alleati. Ha fallito perché è responsabilità sua fare sintesi e mantenere ben saldo il timone della città. E’ la dimostrazione che un amministratore di rottura ed “estremista” non garantisce la governabilità di un’istituzione? Un po’ affrettato dirlo, di sicuro il caso Bitonci a Padova – e il vicino caso Rovigo con il sindaco Massimo Bergamin che rischia di fare la stessa fine – dimostra che la Lega in versione barricadera e salviniana deve aggiustare il tiro se vuole governare. Un conto è stare all’opposizione e fare sparate da campagna elettorale permanente, altra roba è amministrare. Problemi di questo genere a livello di instabilità politica non si intravvedono certo nelle amministrazioni regionali di Luca Zaia in Veneto e di Roberto Maroni in Lombardia. Ma quella, si sa, non è la Lega salviniana. Quella è la Lega Nord.


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