Il presidente eletto Donald Trump ha nominato Mike Pompeo come capo della Cia. Pompeo, deputato del Kansas e membro del Comitato Servizi Segreti della Camera, è un ultraconservatore che nel corso del suo mandato (iniziato nel 2010) ha assunto posizioni razziste e seguito tutte le tematiche dei falchi repubblicani. Dalle critiche sull’accordo nucleare iraniano a un ruolo forte come membro del Selected Comittee che si occupò di indagare sui fatti di Bengasi (dove il console americano rimase ucciso da un attacco terroristico nel 2012, mentre Hillary Clinton era segretario di Stato; Trump più volte in campagna elettorale l’ha additata come responsabile della vicenda).
LE USCITE CONTRO I MUSULMANI
Pompeo è membro del Tea Party, il movimento politico libertario e conservatore, ala del partito repubblicano. Ha 52 anni, diplomato cadetto a West Point e laureato in giurisprudenza a Harvard. Il futuro direttore della Cia ha una dialettica a volte pesante ed è ricordato per episodi. Per esempio, le sue visioni sui musulmani: tre anni fa entrò in scontro con il Council on American-Islamic Relations (Cair), la più grande organizzazione islamica negli Stati Uniti: prendendo la parola alla Camera disse che il silenzio dei leader musulmani sull’attacco avvenuto durante la maratona di Boston era stato “assordante”, sottintendendo una qualche complicità; il Cair aveva reagito duramente, definendo quelle parole “irresponsabili”, perché invece le istituzioni musulmane avevano subito condannato l’attentato e pregato per le vittime. Un’altra volta durante la campagna elettorale del 2010 – finanziata dalla Koch Industries, quella dei fratelli miliardari di Wichita, lo stesso collegio da cui viene Pompeo – un tweet dal suo profilo uscì con un link imbarazzante che rimandava a un post in cui il presidente Barack Obama veniva definito “un usurpatore comunista musulmano”; della vicenda fu accusato un membro dello staff (come spesso succede in certi casi) ma Pompeo disse alla Fox di essere convinto che in fondo “non c’era nessuna malizia” dietro.
GUANTANAMO, SNOWDEN, LA SIRIA
“Dovrebbe essere riportato dalla Russia per seguire un giusto processo”, ha detto all’inizio di quest’anno intervistato dal network televisivo C-SPAN riferendosi al whistleblower Edward Snowden, “e penso che gli dovrebbe venir inflitta una condanna a morte”. Altre opinioni forti? Quelle su Guantanamo e sulle tecniche di interrogatorio pesante della Cia. Il sunto è: sono necessarie e lecite (nemmeno Trump le disdegna) e il controverso carcere cubano non deve chiudere perché “è una risorsa” importante. In mezzo a tutto, l’esperienza militare e il ruolo svolto nella Commissione alla Camera, secondo l’agenzia stampa McClatchy sono i motivi per cui la scelta è ricaduta su di lui. Pompeo ha accettato il ruolo affidatogli da Trump, anche se il deputato aveva sostenuto inizialmente Marco Rubio, stella repubblicana (il più giovane senatore dalla Florida), su cui in molti nel partito avevano riversato le proprie speranze, prima che Trump ne distruggesse le ambizioni alle primarie battendolo sul campo di casa – sempre la McClathy scrive che Pompeo però è un intimo di Mike Pence, il vice presidente eletto che lo collega a Trump, e lo ha aiutato nella preparazione del dibattito contro il democratico Tim Kaine. Trump e Pompeo hanno dei punti critici, uno è per esempio la visione sulla guerra in Siria: Pompeo in passato si era schierato per la destituzione di Bashar el Assad (attività su cui l’Agenzia è già impegnata in modo morbido, dando addestramento a qualche formazione ribelle in partnership con alcuni alleati regionali): ma Trump è contrario all’idea di un regime changes e la sua linea sembra più orientata a lavorare a stretto contatto con la Russia, la cui politica è quella di sostenere Assad. Chissà se il direttore cederà al presidente.
LA QUESTIONE IRAN
Queste visioni che in apparenza sembrano inconciliabili hanno anche un’altra declinazione: l’Iran. Il 17 novembre Pompeo twittava un pezzo del conservatore Weekly Standard in cui si parlava del deal nucleare chiuso per forte volontà dell’Amministrazione Obama: il neo direttore della Cia (in realtà entrerà in servizio anche lui il 20 gennaio, giorno del passaggio di consegne finale, e la sua carica dovrà essere varata dal Senato) dichiarava di voler guardare avanti per cambiare questo “disastroso accordo con il più grande stato al mondo sponsor del terrorismo”. Lo stesso giorno commentava l’Iran Sanctions Extension Act, una proposta legislativa in discussione alla Camera con cui si vorrebbero estendere alcune sanzioni contro Teheran (molte sono state invece tolte per contropartita all’accordo), come una necessità “vitale per proteggere l’America”. La questione Iran è un problema aperto. Per esempio, anche Michael Flynn, che dovrebbe essere il futuro Consigliere per la Sicurezza Nazionale, è uno di quelli che non impazzisce all’idea di chiudere un’intesa con gli ayatollah: come gran parte del partito repubblicano, d’altronde – e pure qualche buon democratico è sulla stessa linea. Anche Trump una volta per tirar su consensi mentre teneva un comizio davanti all’Aipac, la potentissima lobby israeliana – gli israeliani vedono l’accordo nucleare iraniano come motivo di crisi esistenziale – disse che “il disastroso accordo” andava smantellato perché avrebbe potuto portare ad un “olocausto nucleare” (la dialettica di Trump è semplice ma incisiva). Un altro che ha già annunciato che alzerà il livello di controlli e punizioni è Tom Cotton, senatore dell’Arkansas in predicato per guidare il Pentagono: Cotton a marzo del 2015 scrisse una lettera aperta nel tentativo di sabotare l’intero deal, e ha più volte sottolineato la necessità di far saltare in aria gli impianti nucleari iraniani. Ora ha intenzione di fare il mastino. Quale sarà il peso di queste posizioni nel futuro dei rapporti tra i due paesi? La risposta, impossibile adesso, è interessante perché da lì dipendono gli equilibri medio-orientali. E come farà Washington a bilanciare l’inclinazione verso la Russia di cui tanto si parla con queste posizioni?
(Foto: Flickr)