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Tutte le incognite di una campagna elettorale permanente

Matteo Renzi

Cerchiamo, per favore, di non prenderci in giro e di non raccontare balle, che tali rimangono anche se sparate a tutta pagina dai giornaloni che si lamentano continuamente di perdere copie nelle edicole, ma non si chiedono mai perché dovrebbero guadagnarne con la brutta abitudine di parlarsi fra loro, non ai lettori. I quali per fortuna da qualche tempo hanno fonti diverse d’informazione. E sempre di più ne avranno, specie se la carta stampata continuerà a sfornare le sue bugie, o mezze verità, o messaggi cifrati agli addetti ai lavori.

Dopo il clamoroso risultato del referendum che ha affondato la riforma costituzionale e il governo baldanzosamente guidato per mille giorni e poco più da Matteo Renzi, la notizia non è il cosiddetto congelamento della crisi, pur disposto dal presidente della Repubblica per la doverosa approvazione definitiva di quello che una volta si chiamava bilancio e poi si è preferito chiamare diversamente, a seconda degli anni e delle circostanze: legge finanziaria, legge di stabilità e via discorrendo.

La notizia vera è che con le dimissioni di Renzi e con la riserva del capo dello Stato di prenderne atto solo fra qualche giorno, e finalmente avviare poi le procedure della formazione di un nuovo governo destinato per prima e forse unica cosa a decidere con quali regole del gioco si andrà a votare, siamo passati da una campagna referendaria ad una campagna elettorale.

Sveglia, ragazzi delle redazioni dei giornali, telegiornali e varie, e lettori o tele e radioascoltatori. Questa è la realtà del cosiddetto dopo 4 dicembre.

Siamo già entrati in una campagna elettorale che ha però un inconveniente non da poco. Nessuno è in grado di prevederne e valutarne la durata. A dispetto delle poche settimane prescritte dalla legge, questa ennesima campagna elettorale potrà durare indifferentemente dai due mesi pubblicamente auspicati in tv dal ministro uscente dell’Interno Angelino Alfano, fra le cui competenze ci sono proprio quelle elettorali, ad un anno o poco più, quando scadrebbe –nel febbraio del 2018, non dimentichiamolo- la legislatura cominciata nel 2013. Una legislatura che porta il numero 17. Non dico altro, almeno per gli scaramantici, che temo siano una maggioranza ancora più alta di quella uscita dalle urne referendarie, anche se ancora più confusa o, come preferiscono scrivere gli esperti dei giornaloni, “eterogenea”.

Che la campagna elettorale duri tre o dodici mesi, a questo punto, importa poco, assai poco. L’effetto sarà identico, chiunque sarà messo o accetterà di essere messo a Palazzo Chigi dal presidente della Repubblica e otterrà la fiducia provvisoria delle Camere: il governo avrà una operatività –si dice così. signori esperti, costituzionalisti e quant’altri?- pari allo zero, o quasi. Sarà un governo paralizzato dalle inevitabili tensioni di una campagna elettorale, per quante confezioni di valeriana, o simili, potrà o vorrà chiedere il povero Sergio Mattarella di distribuire ai protagonisti e agli attori della competizione per la conquista della maggioranza nelle nuove Camere: quella di Montecitorio e quella, graziata dal referendum, di Palazzo Madama. Graziata come il fantasma, ormai, del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, sulla cui sede avevano già messo gli occhi, per contendersela e trasferirvisi, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Consiglio Superiore della Magistratura. Ti raccomando, Michele, tutte quelle lettere al maiuscolo perché lor signori cultori della Costituzione tornata ad essere la più bella del mondo, dopo il salvataggio referendario, si offendono e ce la fanno pagare cara. Michele naturalmente è Arnese, il direttore di Formiche.net che amichevolmente tratta i miei Graffi: con la maiuscola anche loro perché così ha deciso lui, e io ho accettato.

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Come si possa stare tranquilli, con quello che succede dentro e oltre i confini nazionali, di terra e di mare, con un governo in balìa di una campagna elettorale dalla durata indecifrabile Dio solo lo sa. Come ci si possa consolare solo col fatto che l’anno alle porte sarà elettorale anche per Paesi come la Francia e la Germania, anche questo Dio solo lo sa, come se la gravità dei nostri problemi fosse paragonabile a quelli dei francesi e dei tedeschi, ma anche degli inglesi della Brexit e, oltre Oceano, degli americani condannatisi alla presidenza a dir poco imprevedibile di Donald Trump.

Il buon senso dovrebbe portare a dire, come ha appena fatto sul Foglio Giuliano Ferrara, ovviamente e comprensibilmente deluso dal risultato del referendum, e dal contributo che vi ha dato l’ancora amor suo Silvio Berlusconi, che prima di vota, meglio è. Ma anche il buon senso è diventato qualcosa d’impalpabile, di assai opinabile. Chi, quando e dove giudica il buon senso, distinguendolo da quello cattivo o semplicemente assente? Vi pare, per esempio, di buon senso, alla luce di quanto è accaduto nelle urne referendarie, che la Corte Costituzionale, pur pronta a deliberare sulla legittimità del cosiddetto Italicum, come si chiama la nuova legge elettorale in vigore dal 1° luglio scorso solo per la Camera, abbia voluto rinviare la sua decisione finendo per complicare, e non di poco, il quadro politico post-referendario? Adesso almeno si sarebbe potuto sapere e capire da quale base partire per decidere come votare la prossima volta, anziché macerarsi in una situazione che potrebbe in teoria portarci a fine legislatura non sapendo ancora come uscirne.

Ora a favore dell’Italicum, dopo averne detto peste e corna, si è schierato Beppe Grillo reclamandone un’aggiuntina per estenderlo al Senato, sapendo bene che la sua applicazione, col doppio turno e la maggioranza assoluta dei seggi assegnata alla lista più votata, gli farebbe cadere in mano l’Italia come una pera matura. Cosa, questa, che fa naturalmente inorridire Berlusconi, che però ha partecipato al fronte referendario del no proprio con Grillo, oltre che con Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Antonio Ingroia, Ciriaco De Mita, Mario Monti: sì, lui, proprio lui, il senatore a vita per la cui nomina, decisa dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano allo scopo di aumentarne la statura politica, o credenziali, prima di conferirgli la guida di un nuovo governo, tutto lucidamente tecnico, Berlusconi appose entusiasticamente la firma al decreto, salvo poi scoprire e denunciare i gravi limiti del professore. Che lo stesso Berlusconi aveva a suo tempo mandato a Bruxelles per rappresentare l’Italia nella Commissione Europea.

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Dopo avere scoperto in ritardo i quid –per usare un termine a lui caro- mancanti a Monti, il povero Berlusconi scopre ora gli inconvenienti di dover dividere con Grillo e gli altri la vittoria del no referendario. Dio mio, perché non ci ha pensato un po’ prima, con tutti quei cervelloni –si fa per dire- che lo circondano e che egli ha l’abitudine, ogni tanto, di mettere nel frullatore per vedere l’effetto che fa la loro macerazione.

La vittoria di Pirro potrebbe impallidire di fronte ai risultati della vittoria del fronte referendario del no. Per adesso accontentiamoci dell’ingresso, ripeto, in una nuova campagna elettorale.


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