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Chi spinge per Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi

Richiamato a Roma, temo, più dall’attivismo del suo collega di partito Dario Franceschini, apparso a molti, a torto o a ragione, smanioso di succedergli a Palazzo Chigi, che dalla crisi del Monte dei Paschi di Siena e derivati, in tutti i sensi, il presidente dimissionario del Consiglio Matteo Renzi si è messo personalmente alla ricerca di un nuovo governo da offrire agli italiani. O, per ora, visto che ci sono ancora delle forme da salvare, e si sono sprecate risorse burocratiche e d’altro tipo col rito delle consultazioni al Quirinale, da proporre al pazientissimo presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Pazientissimo, perché il capo dello Stato, da gran signore qual è, non ha battuto ciglio di fronte alle consultazioni parallele o addirittura competitive di Renzi, consolandosi ottimisticamente col fatto che il presidente del Consiglio dimissionario è ancora a tutti gli effetti, nel pieno delle sue funzioni, il segretario del partito di maggioranza. Per cui, aveva ed ha tutto il diritto di incontrare chi voleva e chi vuole: sia per il disbrigo governativo degli affari correnti, sia per il disbrigo degli affari ordinari e straordinari di partito. Fra i quali, essendo mancati un dibattito nella direzione e un documento vincolante, c’è sino all’ultimo momento utile il problema delle cose da far dire al capo dello Stato, a chiusura delle consultazioni del mancato ponte dell’Immacolata, dalla delegazione del Pd. Dalla quale, come si sa, Renzi ha ritenuto per ragioni di stile, bontà sua, di tenersi fuori per togliere dall’imbarazzo i compagni di partito nei discorsi riguardanti lui.

Pochi forse si aspettavano da uno come Renzi, vista la rappresentazione fattane un po’ da tutti i giornali, nemici ma anche amici, tanta delicatezza.

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Il primo requisito del nuovo governo che Renzi ha pensato di offrire generosamente agli italiani per il tramite del presidente della Repubblica è la gentilezza. Un governo quindi gentile, più che gentile. Bisognava quindi cercare un rafforzativo, un accrescitivo di gentile. Un governo se non gentilissimo, almeno gentilone. E’ bastato all’uomo di Rignano sfogliare l’elenco dei suoi ministri per trovare subito il nome adatto, per quanto al plurale: Gentiloni. Che è poi gentile di nome e di fatto: un gran signore davvero. Che si porta benissimo, come un giovanottone, i suoi d’altronde pochi 62 anni, ed anche il doppio cognome che tradisce le sue origini nobiliari: Gentiloni Silveri. Un cognome importante anche nella storia del Paese, provenendo il nostro ministro degli Esteri dalla famiglia che con il famoso Patto Gentiloni del 1913, benedetto dal Papa dell’epoca e dal capo del governo Giovanni Giolitti, consentì finalmente ai cattolici di partecipare alle elezioni, da cui si erano formalmente tenuti fuori sino ad allora per le circostanze assai laiche, se non vogliamo definirle anticlericali, in cui si era sviluppato il processo unitario dell’Italia. Il Partito Popolare, e cattolico, di don Luigi Sturzo sarebbe nato solo sei anni dopo la premessa, diciamo così, costituita dal Patto Gentiloni: nel 1919.

A favore della designazione di Paolo Gentiloni Silveri alla guida del nuovo governo giocano anche due circostanze non da poco in questa delicata congiuntura politica. Proveniente pure lui dall’esperienza della “Margherita” di Francesco Rutelli, dove Renzi ha attinto abbondantemente collaboratori e amici nella scalata alla segreteria del Pd e al suo primo governo, Gentiloni non coltiva correnti, come il suo amico Franceschini. Che si è molto arrabbiato nel sentirsi indicare dai soliti retroscenisti come uno scalatore implacabile ma non può certamente smentire di avere un bel numero di amici e seguaci politici, specie nei gruppi parlamentari del Pd, con i quali ha contribuito in modo decisivo a creare e smontare equilibri nei nove anni di vita della formazione politica guidata per primo da Walter Veltroni con lui vice segretario, succedutogli temporaneamente dopo le dimissioni.

Contesa poi inutilmente la segreteria a Pier Luigi Bersani, il ministro oggi uscente dei Beni Culturali ne fu sostenitore nell’assalto tentato per la candidatura a Palazzo Chigi nel 2012 dall’allora sindaco di Firenze. E l’anno dopo egli fu altrettanto decisivo sia per far vincere a Renzi le primarie per la segreteria del partito, contro Gianni Cuperlo, sia per fargli chiudere bruscamente l’esperienza governativa di Enrico Letta.

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Con questi precedenti, pur a lui favorevoli per un bel po’, è comprensibile che Renzi in questo difficile passaggio della sua esperienza politica, mentre rischia di uscire davvero di scena e prepara il congresso anticipato del partito, sia sospettoso della forza e dell’agibilità di Franceschini. E si senta più tranquillo e garantito da Gentiloni, non a caso da lui voluto alla Farnesina come ministro degli Esteri, quando Federica Mogherini fu trasferita a Bruxelles, con una operazione vissuta da Massimo D’Alema, a torto o a ragione, come un odioso supplemento di rottamazione nei suoi riguardi.

Le funzioni di ministro degli Esteri sono in qualche modo la ciliegina sulla torta della candidatura di Gentiloni a Palazzo Chigi. La ciliegina, perché nessuno più di lui obiettivamente sembra adatto a proseguire la preparazione e poi a partecipare ai due grandi appuntamenti internazionali del nuovo governo italiano: il vertice europeo di marzo a Roma, dove saranno celebrati i 60 anni dei trattati originari dell’Unione, e il G7 di maggio a Taormina. Dopo di che, se sarà finalmente sciolto il nodo della nuova legge elettorale, applicabile sia alla Camera sia al Senato uscito incolume dal referendum del 4 dicembre, si potrà ben andare alle elezioni anticipate volute da Renzi.

In occasione di queste elezioni giustamente, dal suo punto di vista, il segretario del Pd muore dalla voglia di lanciare le reti nei tredici milioni e rotti di voti referendari raccolti con la riforma costituzionale e di vedere come gli inconciliabili Beppe Grillo, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Nichi Vendola e i frontalieri, chiamiamoli così, del Pd, quelli cioè che stanno con un piede dentro e un altro fuori, potranno disitribuirsi i 19 milioni di no alla riforma costituzionale sbattuti in faccia al comune avversario.

Due sole cose potrebbero fermare quello che sembra ormai il conto alla rovescia per l’incarico a Gentiloni: un fastidio di Mattarella per questa storia delle consultazioni parallele condotte senza neppure un briciolo di discrezione o un ripensamento di Renzi, che lo stesso Mattarella sembra preferisse e preferisca tuttora confermare al suo posto, magari con un altro mandato, per rendere più visibile una continuità che il presidente del Consiglio dimissionario vorrebbe invece evitare od occultare temendo di perdere troppo la faccia dopo avere tanto decantato la propria “diversità” dalla vecchia “casta” incollata alle poltrone. Ma egli dimentica che la diversità è una categoria dello spirito che ha già portato sfortuna al povero Enrico Berlinguer e non è per niente detto che non ne porti prima o dopo anche a Grillo, che la sventola pure lui come una bandiera.


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