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Ecco a chi piace (e a chi non piace) il Mattarellum riesumato da Matteo Renzi

Continua nel Pd lo spettacolo referendario copiato dalla celebre commedia di Eduardo De Filippo “Natale in casa Cupiello”, dove il presepe non piace mai al figlio del protagonista.

Durante la campagna referendaria, per quante concessioni facesse Matteo Renzi, per esempio impegnandosi a modificare la contestata legge elettorale della Camera chiamata Italicum e a garantire che il nuovo Senato composto da consiglieri regionali fosse eletto insieme con gli stessi consiglieri, con una doppia scheda, o una sola scheda con doppio spazio, gli oppositori interni del segretario del Pd continuarono a dire no alla riforma costituzionale. E alla fine contribuirono il 4 dicembre alla sconfitta di Renzi, pur in modo non decisivo, essendosi il distacco fra il no e il sì rivelato di ben 18 punti, ben superiore quindi alla consistenza elettorale della minoranza del Pd. Che è valutata, nella migliore delle ipotesi, attorno al 10 per cento.

Ora, a referendum chiuso e vinto, e dopo avere ottenuto lo scalpo di Renzi almeno come presidente del Consiglio, gli oppositori interni del Pd hanno polemicamente disertato la votazione conclusiva dell’assemblea nazionale. Che ha sì assicurato al segretario 481 sì, 2 no e 10 astensioni fra i presenti, ma non ha cambiato, con la diserzione appunto degli altri, il quadro conflittuale del partito di maggioranza.

Insomma neppure il nuovo presepe allestito da Renzi dopo la sconfitta referendaria rinunciando al congresso anticipato, che la minoranza non voleva, e proponendo il ritorno alla legge elettorale che porta il nome latinizzato – Mattarellum – del presidente della Repubblica, anch’essa voluta dalla minoranza, è piaciuto ai signor No del Pd. Alle cui facce il vice presidente renzianissimo della Camera, Roberto Giachetti, pur prendendosela solo con l’ex capogruppo e aspirante segretario Roberto Speranza, ha dato del “culo”, ripiegando sul “bronzo” dopo le proteste del presidente dell’assemblea, Matteo Orfini, mentre Renzi si metteva le mani fra i capelli.

Nella commedia del grandissimo De Filippo il figlio del protagonista si decide a farsi piacere il presepe solo quando vede il padre morire sognandone uno bellissimo, secondo le descrizioni che ne faceva vagheggiando. Anche la minoranza bersaniana del Pd si deciderà forse a condividere le proposte di Renzi solo dopo la sua fine politica. Il guaio, però, per l’opposizione interna è che il segretario non ha alcuna intenzione di morire, né fisicamente né politicamente. Anzi, sembra averne tanta di battersi per recuperare il terreno perduto con gli errori che ha ammesso di avere compiuto con il referendum, a cominciare dalla sottovalutazione di quella che lui ha chiamato “politicizzazione” dello scontro, avvenuto cioè non sul contenuto della riforma, ma sul suo governo. È un po’ il rovescio, se vogliamo, della “personalizzazione” che lo stesso Renzi volle dare alla campagna referendaria prima ancora che cominciasse formalmente, e che gli fu contestata pubblicamente dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, privatamente anche dal presidente effettivo.

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Pur non essendo piaciuto ai suoi oppositori interni, che già si preparano a cavalcare contro il segretario del partito i referendum abrogativi in arrivo sulla sua riforma del mercato del lavoro, promossi dalla Cgil di Susanna Camusso e ora all’esame di ammissibilità alla Corte costituzionale, il presepe di Renzi ha ottenuto i pieni voti di un giornale che certo non può essere sospettato di essere di destra: la Repubblica. Il cui notista Massimo Giannini, che viene generalmente considerato “epurato” dalla Rai, con la sua trasmissione Ballarò, non dico per ordine ma per far piacere, o credendo di far piacere all’allora presidente del Consiglio, ha appena definito così “lo “sbocco politico e istituzionale” offerto da Renzi all’assemblea nazionale del suo partito: “serio e condivisibile”.

Anche a Giannini, quindi, diversamente da un più cauto Stefano Folli, della stessa testata, sono piaciute l’analisi autocritica della campagna referendaria fatta da Renzi, la rinuncia ad un congresso anticipato che avrebbe potuto far salire troppo la temperatura nel partito e la difesa, col Mattarellum, del sistema elettorale maggioritario dalla prospettiva perseguita da altri, a cominciare da Silvio Berlusconi, ma anche dalla sinistra ormai ex vendoliana, di un ritorno al proporzionale della cosiddetta prima Repubblica, sia pure con qualche aggiornamento.

Certo, rimane aperto il problema, sostanzialmente eluso da Renzi, delle elezioni anticipate. Che la minoranza del Pd non vuole, al pari di altri che pure a parole dicono di volerle o di non temerle. La minoranza del Pd non le vuole soprattutto perché la preparazione delle liste dei candidati sarebbe nelle mani non certo inoperose di Renzi, e poi perché potrebbero servire a rinviare i referendum sulla riforma del mercato del lavoro che gli avversari del segretario, come si è già detto, già cavalcano. Essi sono disposti a rinunciarvi solo se l’ex presidente del Consiglio accettasse di smentire o addirittura ripudiare la sua riforma –quella di cui si è forse vantato più ancora della riforma costituzionale- con modifiche radicali, che farebbero tornare troppo indietro le cose scoraggiando gli investimenti e la conseguente creazione di nuovi posti di lavoro.

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Fuori dal Pd quello che il notista di Repubblica Massimo Giannini ha definito “uno sbocco politico e istituzionale serio e condivisibile”, commentando la relazione di Renzi alla sua Assemblea nazionale, ha prodotto le previste, scontate reazioni da palcoscenico di Beppe Grillo. Che si è un po’ distratto dai guai capitolini del proprio movimento per tornare a dare del “bugiardo” all’ex presidente del Consiglio e intimargli di farsi da parte, come se fosse il clone del vice sindaco grillino di Roma, appena decapitato politicamente da Davide Casaleggio.

Il torto, chiamiamolo così, di Renzi è di essersi rivolto soprattutto ai grillini, con la sua proposta di ritorno al Mattarellum, perché dicano finalmente cosa davvero vogliono in tema di riforma elettorale. Essi prima avevano liquidato il cosiddetto Italicum voluto a suo tempo da Renzi come una diavoleria, poi l’avevano talmente rivalutato da chiederne l’applicazione al Senato per sostenere infine il ritorno al sistema proporzionale, come l’odiato Berlusconi.

Quest’ultimo naturalmente non ha gradito la proposta del ritorno al Mattarellum perché, secondo il suo capogruppo al Senato Paolo Romani, esso era buono nel 1994 per un sistema “bipolare”, che ora con Grillo è diventato invece tripolare, e rischia con quella legge di produrre Camere ingovernabili. Il Mattarellum invece piace al segretario leghista Salvini per la semplice ragione che, accontentando Renzi, il Carroccio potrebbe ottenere davvero le elezioni il più presto possibile.

Ma nei guai peggiori, o nell’imbarazzo maggiore, sembrano essere i cosiddetti centristi: sia quelli della maggioranza attuale sia quelli di opposizione. Che senza una soglia di sbarramento abbastanza bassa che li salvaguardi non saprebbero con chi poter o voler trattare le loro candidature nei collegi uninominali. E’ in gioco la loro sopravvivenza, dall’una o dall’altra parte.

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