Non è ancora chiaro se anche la caduta del TU-154 con a bordo il Coro Alexandrov sia stata provocata da un atto di terrorismo o meno. Quello che è già certo, invece, è che anche la Russia è sotto attacco.
Il 23 ottobre a Nizhny Novgorod – 400 km ad Est di Mosca – un conflitto a fuoco provocato da un controllo di una Daewoo Nexia in transito ha provocato la morte di due terroristi, l’esplosione di una delle bombe che avevano a bordo, la cattura di un terzo e il ferimento di due poliziotti. Altro esplosivo è stato trovato nell’auto. Il 12 novembre i servizi di sicurezza russi hanno arrestato dieci terroristi tra Mosca e San Pietroburgo, sequestrato armi e altre quattro bombe artigianali. Il FSB ha dichiarato che i dieci stavano pianificando attacchi nelle due principali città russe. Già il 17 agosto un raid dell’FSB aveva eliminato quattro terroristi provenienti dal Caucaso settentrionale in un covo a San Pietroburgo. Non si può trascurare l’assassinio dell’ambasciatore russo in Turchia del 19 novembre, anche se avvenuto all’esterno del territorio russo. Qui, il numero di crimini collegati al terrorismo nei primi sei mesi dell’anno è cresciuto del 73% rispetto al 2015.
Risulta ormai innegabile che ISIS sta scatenando una guerra santa contro la Russia, individuata come il suo principale nemico o, comunque, come uno dei più temibili. Questa espansione a Est della minaccia terroristica ha diverse radici. Vediamo quali. I fenomeni migratori hanno portato la Russia a ospitare la più grande comunità mussulmana d’Europa. In questa comunità, Isis è riuscita a reclutare un gran numero di foreign fighters, in particolare da Mosca. Come il resto d’Europa, anche la Russia non è immune ai fenomeni di alienazione ed emarginazione delle minoranze mussulmane che si sentono discriminate e colpite dalla disoccupazione più di altre comunità. Anche qui aumenta la microcriminalità prodotta dalla miseria e, parallelamente, la radicalizzazione provocata dal contatto con gli elementi più fanatici all’interno delle carceri stesse. Inoltre, è sempre più evidente la migrazione verso il Bashkortostan e il Tatarstan dei militanti islamici prima relegati ai territori del Caucaso settentrionale.
Ad aggravare la situazione, già col suo ritorno alla presidenza nel 2012, Putin ha di fatto portato la Chiesa Ortodossa allo status di religione ufficiale della Federazione dichiarando che questa “incarna l’ossatura della morale e del costume nazionale”. I reclutatori del Califfato hanno quindi avuto gioco facile nel sostenere che era in corso un processo di cristianizzazione forzata del Paese e di alienazione delle minoranze religiose. Prima fra tutti la comunità islamica.
Ad una miscela così esplosiva, si aggiunge il fatto che la quasi totalità dei mussulmani in Russia e nell’Asia centrale sono Sunniti, mentre in Siria, in Iraq e in Iran, il governo di Mosca sostiene militarmente gli Sciti.
Così, già a settembre 2015, cinquantacinque capi religiosi Sauditi Wahabiti hanno proclamato una Fatwa contro la Russia. Poco dopo, il 12 novembre, lo stesso Stato Islamico ha confermato la guerra santa e diffuso un video in lingua russa in cui dichiarava che “Il Cremlino sarà nostro” e che “il sangue russo formerà un oceano presto … molto presto.”.
Queste dichiarazioni potevano essere prese come le solite fanfaronate cui ci ha abituato la propaganda terrorista, ma si sono sommate, moltiplicandosi, con l’aumento del coinvolgimento russo in Siria. Diversi mussulmani russi hanno percepito il supporto dato ad Assad contro i suoi nemici (terroristi e non) come una guerra a sostegno della setta Alawita e agli Shiti alleati con Assad contro i Sunniti.
Per fare fronte a questa minaccia, il governo centrale ha spinto le autorità del Tatarstan a monitorare tutti gli Iman sul territorio della provincia segnalando quelli sospettati di simpatie verso movimenti islamici radicali. Il controllo è arrivato fino al vertice delle gerarchie musulmane e anche Ramil Yunusov, l’imam della più grande moschea del Tatarstan, è stato cacciato per simpatie Wahabite. I libri Sauditi distribuiti nelle madrasse sono stati confiscati per essere sostituiti con testi di contenuto più ortodosso. Intuendo il rischio di radicalizzazione all’interno delle carceri, nuovi Imam di provata onestà sono stati inviati nelle colonie penali del territorio per individuare ed isolare i detenuti più fanatici e pericolosi.
Ma la strategia di Putin nel Caucaso Settentrionale è stata anche più diretta. Già nel 2011, quando la primavera araba ha cominciato a degenerare e i primi gruppi terroristici hanno iniziato a insediarsi in Siria, i russi hanno aperto un corridoio verde allo scopo di cacciare dal Paese i potenziali terroristi incoraggiandoli a spostarsi in Siria. La pulizia in vista dei giochi olimpici di Sochi è stata ottenuta col bastone e con la carota: con rastrellamenti mirati nelle comunità islamiche e al contempo facilitando lo spostamento sia dei fanatici che dei loro congiunti verso i territori siriani. Allora un anonima fonte dell’FSB dichiarò che “tutti sono felici: loro vanno a morire per Allah, noi ripuliamo i fanatici dal nostro territorio e poi li bombardiamo in Latakia e a Idib.”
Ma le cose non sono andate come previsto. Il 28 settembre del 2015, nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Putin ha dichiarato che “dopo aver assaggiato il sangue in Siria, i foreign fighters russi ritorneranno per continuare le loro azioni malvagie”.
Una base legale al contrasto di questi è stata realizzata già nel 2013 con l’emendamento dell’articolo 208 del codice penale russo prevedendo 10 anni di reclusione per chi “partecipa ad azioni militari fuorilegge in territorio straniero con obiettivi contrari agli interessi della Federazione Russa” (interessante che i legislatori abbiano sentito la necessità di specificare che le sole azioni illegali sanzionabili sono quelle contrarie agli interessi russi…). La strategia del corridoio verde è stata quindi ribaltata e solo nel 2015 oltre 100 mussulmani russi che tentavano di raggiungere la Siria sono stati acchiappati mentre cercavano di lasciare il Paese. In parallelo, è iniziato uno scrupoloso monitoraggio dei fanatici già fuoriusciti. Le schedature sono passate da 650 nel 2015 a oltre 15.000 quest’anno, comprese vedove e figli dei fuoriusciti morti in combattimento. Gli agenti russi li hanno seguiti, occasionalmente fermati e comunque catturati mentre tentavano di rientrare nel Paese.
Nonostante questo, il numero dei fanatici radicalizzati russi ha continuato a crescere. Nel giugno 2013 Alexander Bortnikov, il direttore FSB, parlava di 200 cittadini russi che avevano già raggiunto Al Qaeda in Siria. Nel settembre 2015 l’FSB informava che erano arrivati a contarne 1800. Nel marzo 2016, annunciando la cattura di 18 reclutatori nella Capitale, l’FSB comunicava che la quota era cresciuta a 3417. Le stime degli analisti indicano in 5000 i cittadini russi schierati con ISIS, fra questi 2000 vengono dal Caucaso settentrionale. Gli altri giungono non solo dal Tatarstan e dal Bashkortostan ma anche dalla Siberia occidentale e settentrionale.
Quello che preoccupa anche le compagnie energetiche occidentali che distribuiscono il gas e il petrolio russo in Europa è che tanto nella Siberia settentrionale a Yamalo-Nenetsk, dove viene estratto oltre il 90% del gas russo, quanto a Khanty-Mansiysk, nella regione di Tyuomen dove viene estratta la maggior parte del petrolio, sono stati catturati alcune decine di fanatici attivi mentre alcune centinaia – potenzialmente a rischio – sono sotto stretta sorveglianza.
In conclusione, anche in Russia, come già in Europa occidentale, è nata e si sta esacerbando una tendenza alla radicalizzazione definita “il problema della seconda generazione”. La maggior parte dei terroristi catturati o uccisi fino ad ora ha, infatti, la caratteristica comune di essere un immigrato di seconda generazione. I figli di milioni di immigrati islamici in Russia, nati nello stesso territorio dove si erano insediati i loro genitori immigrati in cerca di lavoro, stanno raggiungendo l’età adulta. Nella sola San Pietroburgo il 60% degli scolari sono figli di immigrati dall’Asia centrale.
Questi hanno una visione di seconda mano delle condizioni di vita dei loro parenti prima dell’emigrazione e qui subiscono sulla loro pelle sostanzialmente gli stessi problemi: ghettizzazione dalle altre comunità, disoccupazione o sottoccupazione e al contempo non hanno la tempra morale che ha permesso ai loro genitori di emigrare e farsi strada nella nuova società. Per questo trovano rifugio alla propria alienazione nell’islam ma poi diventano facile preda dei reclutatori che li portano alla radicalizzazione.
Ora che Isis sta tornando invisibile, l’azione di contrasto al terrorismo deve concentrarsi non solo sulla pulizia dei territori rimasti sotto il controllo dei fanatici ma nell’intelligence e – soprattutto – nel coordinamento fra tutti i Paesi civili. Nessuno escluso.