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Sì al licenziamento per profitto? Tanto per rumore per nulla dopo la Cassazione

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E’ legittimo il licenziamento di un lavoratore motivato dall’azienda con l’intento di realizzare “una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto”. Lo ha stabilito la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione.

Ovviamente la motivazione farà discutere, tanto per l’incorreggibile tendenza al “buonismo’’ nell’affrontare questi problemi, quanto per la facile demagogia evocata dalla parola ‘’profitto’’ e sia per il fatto che la sentenza ha capovolto il giudizio della Corte di Appello di Firenze che non aveva riconosciuto, nella fattispecie, un valido motivo oggettivo.

Eppure, la sentenza della Suprema Corte non fa una grinza; e non ha nulla da spartire con le modifiche introdotte nella disciplina del recesso dal rapporto di lavoro sia dalla legge n.92/2012 (la riforma Fornero del mercato del lavoro), sia dal dlgs n.23/2015 che ha introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Diciamo di più.

Se anche l’11 gennaio prossimo i giudici delle leggi dichiarassero l’ammissibilità del quesito referendario sull’articolo 18 e l’elettorato si pronunciasse in modo favorevole all’abrogazione delle recenti innovazioni legislative, la sentenza non sarebbe affatto fuori luogo, perché conforme non solo alla giurisprudenza consolidata, ma anche alla migliore dottrina.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (o economico) è stato introdotto dalla legge n.604 del 1966 (che rappresentò una svolta in materia) ed è determinato “da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa’’. È evidente che ricorrere al licenziamento di un lavoratore per conseguire questi obiettivi significa anche perseguire una migliore efficienza produttiva e quindi un più solido profitto (che non è lo “sterco del diavolo’’ ma il fine perseguito dall’impresa).

Il giudice è tenuto ad accertare l’effettiva soppressione di una posizione lavorativa all’interno dell’azienda, ma, in forza del principio di libertà dell’iniziativa economica privata di cui all’articolo 41 Cost., le scelte di gestione dell’imprenditore non sono sindacabili, ma soltanto verificabili nella loro concreta attuazione. E quindi il giudice non può valutare la convenienza economica o l’indispensabilità della ristrutturazione e della riconversione che restano nell’esclusiva discrezionalità organizzativa del datore.

In sostanza, è quanto la Suprema Corte ha ribadito nella sentenza.


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