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Come schiacciare il serpente dello jihadismo dopo Berlino

Come si fa a distinguere un profugo, che magari ha chiesto asilo, da un terrorista? Lo si guarda negli occhi e si cerca di indovinare da dove viene e che intenzioni ha? Gli si chiedono i documenti e si scopre magari che è in regola? Ma se anche non fosse in regola, come si fa a sapere che è uno jihadista, affiliato ad una delle tante organizzazioni che seminano la morte in Occidente, un militante dell’Isis?

Domande che si rincorrono dopo la strage a Charlottenburg, nel cuore di Berlino. Ancor più stringenti in seguito alla scoperta che il pachistano fermato, e sulle prime ritenuto responsabile della mattanza, era la persona sbagliata. La rivendicazione dei criminali scherani del Califfo non si è fatta attendere, naturalmente. Un’occasione per seminare panico, una volta di più: perché lasciarsela sfuggire? Soprattutto avendo l’alta probabilità di essere creduti, dopo il massacro analogo di Nizza. Ma del miliziano, intanto, si sono perse le tracce. E in Germania, come altrove in Europa, tra i tanti profughi che popolano perfino i borghi più remoti, meno frequentati, addirittura sconosciuti e neppure rilevati sulle carte geografiche, la domanda d’obbligo e legittima che corre è una sola: ma questo sconosciuto che mi si para davanti potrebbe essere un terrorista?

Ecco dove nasce la paura. Da un interrogativo elementare. Se perfino la cancelliera tedesca Angela Merkel, che più di ogni altro capo di Stato e di governo europeo si è battuta per aprire le porte a quanti cercano protezione nel nostro pericolante mondo, si chiede la stessa cosa, vuol dire che il sospetto dell’impotenza a fronteggiare un pericolo estremo, come il nuovo terrorismo che ha aggiornato i sistemi ed i metodi della “guerra asimmetrica” praticata dal qaedismo (e non solo), si è fatto strada nelle coscienze degli occidentali.

Del resto, la concretezza del terrore organizzato la si sperimenta sui campi di battaglia dove il rischio della costituzione e dell’affermazione di un vero e proprio Stato terrorista, il Califfato, non è in discussione. Quel che ancora manca agli invasati comandati da Abu Bakr al-Baghdadi è la conquista del consenso nell’area da espugnare, vale a dire l’Europa. Non potendola ottenere per via “militare”, si affidano a lupi solitari, a “fedeli” non rivelati, a combattenti che sono capaci di mimetizzarsi nel mondo in cui vivono da profughi o meno. Da europei perfino e si comportano come tali confondendo polizie e strateghi della lotta al terrore.

Nell’intimità, dicevano i jihadisti di un tempo, nasce e si sviluppa la “grande guerra santa”. E quando il destino suggerisce l’azione, ecco la mano si arma senza la complicità di alcuno, semplicemente rubando un camion e piombando a tutta velocità sulla folla inerme. Senza bombe, senza sofisticati meccani omicidi, senza neppure un piano per sottrarsi alla cattura sapendo che la morte è una possibilità di fronte alla quale non si fugge, come insegna la tradizione islamista.

L’organizzazione anzi – lo abbiamo finalmente capito – può essere perfino d’impaccio. E’ la sorpresa l’arma letale. E cosa può esserci di più sorprendente di un qualsivoglia insospettabile (profugo o europeo che sia) che da solo, nella profondità della sua anima, matura la decisione di portare dolore e morte a chi, senza mai averlo neppure immaginato, gli si presenta come nemico assoluto da eliminare? Qualcuno ha scritto che bisogna pensare come loro, sentire come loro, odiare come loro. Non so se, appartenendo a culture e modi di essere profondamente diversi, riusciremo a trasformarci rispetto a ciò che siamo. Ne dubito. Tuttavia, se al serpente non si taglia testa e le sue uova non vengono distrutte, dovremo abituarci (ma sarà mai possibile?) a vivere nella paura e farci guidare dall’istinto di conservazione che molto spesso significa diffidare del diverso, dell’altro da noi. In altre parole, vedere nemici anche laddove non ci sono.

La civiltà europea ed occidentale non può avere la tentazione della chiusura per preservare stessa. Chiudersi significa morire. La storia dell’umanità è stata segnata da cadute quando i conflitti hanno creato divaricazioni tra popoli e culture non ricomponibili. Al contrario, le floride stagioni delle civiltà sono state caratterizzate dalle aperture dovute anche alla sconfitta di chi accarezzava l’esclusione per affermare il proprio dominio.

La comprensione delle ragioni dell’altro, dunque, passa attraverso la ragionevolezza che dovrebbe allontanare la tentazione di vedere negli occhi del profugo il terrorista che potrebbe essere in lui. Esercizio difficile di questi tempi, ma non credo ci sia alternativa. Per sua natura il mondo non è chiuso. E’ solo questione di trovarle le uova del serpente e annientarle prima che si schiudano.

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