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La svolta garantista di Beppe Grillo? Un pesce d’aprile fuori stagione

Paola Taverna, Beppe Grillo e Carla Ruocco movimento 5 stelle

La cosiddetta svolta garantista di Beppe Grillo – che ha generosamente concesso ai suoi sindaci e “portavoce”, come lui chiama i parlamentari e gli altri eletti del suo movimento, di rimanere al loro posto, ma solo col suo permesso, se raggiunti da un avviso di garanzia – è un pesce d’aprile fuori stagione. Che giornaloni e giornali – sempre i soliti – hanno preso così sul serio, anche quando hanno espresso qualche dubbio, bontà loro, da piazzarlo bene in vista sulle loro prime pagine, declassando a notizie minori anche quelle sui rischi che corrono le nostre vite e i nostri soldi: minacciati, le une e gli altri, rispettivamente, dal terrorismo islamista dilagante e dalla perdurante crisi economica e finanziaria. E’ una questione, evidentemente, di gusti nella confezione dei quotidiani e, più in generale, nel trattamento dell’informazione.

Mi chiederete, a questo punto, perché mai allora me ne stia occupando in apertura dei miei Graffi. Già, perché? Non certo per prendere sul serio Grillo e la sua corte stellata, variante dei tanti gigli più o meno magici che immaginiamo e denunciamo attorno ai vari leader, veri o presunti, che animano il teatro politico italiano. No. Me ne occupo con tanta premura perché, ostinato come sono per abitudine, esperienza di lavoro, età e chissà quali e quante altre ragioni, ad amare – sì, amare – la carta stampata, di cui non riesco neppure ad immaginare di potermi davvero rassegnare a fare a meno, o quasi, come invece è già accaduto a qualche collega, non voglio perdere nessuna occasione per rilevarne o rivelarne gli errori che la stanno portando alla disaffezione da parte dei lettori. E a lasciare uno spazio sempre più largo all’informazione alternativa, a cominciare da quella telematica. Che ha i suoi pregi e meriti, per carità, a cominciare dall’accesso più facile e meno costoso, ma anche i suoi inconvenienti e demeriti. Come quello delle bufale promosse a post-verità, di cui proprio Grillo, avendovi costruito sopra le fortune elettorali del proprio movimento, ha appena rivendicato il diritto di sottrarsi a ogni regola, sfidando Autorità con la maiuscola e autorità con la minuscola a provare a intervenire.

Mi spiace che in questa pretesa il comico genovese abbia incontrato, se non ho preso abbagli, la comprensione anche di un giornalista serio e scrupoloso come Enrico Mentana, al quale non sarò mai grato abbastanza di avere coniato la felicissima espressione di webeti per definire chi insozza letteralmente le vie telematiche all’informazione e al dibattito.

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Per tornare al pesce d’aprile fuori stagione del garantismo a 5 stelle, debbo dirvi che sino a ieri credevo che l’Italia avesse solo tre Repubbliche, con le quali da una quarantina d’anni mi sono abituato a fare giornalmente i conti. Una è quella naturalmente uscita dalle urne referendarie del 2 giugno 1946, che liquidò la Monarchia. E’ la Repubblica a presiedere la quale si alternano ogni sette anni i presidenti eletti dal Parlamento e dai delegati regionali, con una scadenza interrotta solo tre volte in più di 70 anni.

La prima interruzione fu nel 1964 col mandato di Antonio Segni, impedito per ragioni di salute. La seconda nel 1978 col mandato di Giovanni Leone, costretto alle dimissioni sei mesi prima della scadenza dell’incarico formalmente per una ingiusta campagna denigratoria cavalcata, in ordine cronologico, dai radicali, comunisti e persino democristiani, colleghi di partito del presidente, e poi smentita dalle sentenze dei tribunali, in realtà punito dai partiti della cosiddetta linea della fermezza per essersi permesso durante il tragico sequestro di Aldo Moro di averne dissentito. Egli era arrivato a predisporsi alla grazia a una detenuta per reati di terrorismo nel generoso tentativo di fermare la mano agli assassini dello statista sequestrato il 16 marzo di quell’anno. La terza interruzione risale al 2015 con le dimissioni di Giorgio Napolitano, per dichiarata stanchezza fisica, dopo la rielezione di due anni prima: l’unica peraltro nella storia del Quirinale repubblicano.

L’altra Repubblica è quella di carta – miracoli della carta stampata, come vedete – fondata nel 1976 da Eugenio Scalfari, dove gli avvicendamenti sono più rari, essendo durati vent’anni l’uno i due direttori sinora succedutisi: lo stesso Scalfari ed Ezio Mauro. Ma il fondatore è rimasto sempre lì presente, con i suoi editoriali, i suoi incontri, le sue telefonate, i suoi consigli, le sue arrabbiature, le sue benedizioni, le sue rampogne e quant’altro.

È una Repubblica, quella di carta, che ha rapporti solitamente eccellenti con quella vera, spesso raccogliendone persino i sospiri o anticipandone gli umori, cioè influenzandola.

La terza Repubblica è quella giudiziaria, che spesso prevale sulle altre due col diritto che hanno le toghe di disporre della libertà dei cittadini e persino di innovare le leggi applicandole con una tale, progressiva discrezionalità da sostituirsi ai legislatori indicati dalla Costituzione. Non parliamo poi delle intrusioni, o incursioni, di certi magistrati nella politica vera e propria, sin dentro ai partiti per condizionarne i sempre faticosi e volubili equilibri interni.

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Adesso è arrivata la quarta Repubblica, targata Grillo o 5 stelle, come preferite, che fa concorrenza alle altre tre. Essa si fa le sue leggi con i cosiddetti codici etici, o di comportamento, o i contratti con gli eletti, sottoposti anche a multe di oltre centomila euro, alla faccia dell’articolo 67 della Costituzione che nega vincoli di mandato per chi è eletto dal popolo a rappresentarlo.

Alla Repubblica di Grillo, che ha appena innovato il suo codice penale, in tempo – guarda caso – per proteggere la sindaca di Roma Virginia Raggi dall’avviso di garanzia che le starebbe per arrivare dalla Procura di Roma, manca ormai solo di battere moneta per finanziare i suoi fantasmagorici programmi sociali. D’altronde, anche la Lega degli esordi bossiani sognava una sua moneta: una specie di zecchino di latta da contrappore in Padania alla povera liretta italiana.

Voi forse penserete che io stia scherzando. Ebbene, vi sbagliate. Non sto per niente scherzando. Vi ho rappresentato la realtà, per quanto paradossale essa possa essere o sembrarvi.

I quattro anni ormai trascorsi dall’esordio parlamentare dei grillini, scambiati dal solito Pier Luigi Bersani per profeti, inseguiti e corteggiati da lui sino a perdersi per strada l’incarico di presidente del Consiglio conferitogli ottimisticamente dall’allora Presidente della Repubblica Napolitano, lesto comunque a raccogliere il mandato da terra e conferirlo poi ad altri; i quattro anni, dicevo, trascorsi dal loro esordio parlamentare hanno ridotto la consistenza numerica dei grillini, tanto a Montecitorio quanto a Palazzo Madama, ma non li hanno per niente maturati. Sono rimasti una forza anti-sistema, alle prese con prove di governo a livello locale che non so se considerare più penose o pericolose.


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