Soffre di disaffezione, vedo, anche la quarta delle Repubbliche d’Italia: quella comica di Beppe Grillo, come quella del Quirinale presieduta ora da Sergio Mattarella, quella di carta fondata nel 1976 da Eugenio Scalfari e quella giudiziaria che produce le leggi nei tribunali anziché in Parlamento. Pazienza per le altre tre, che hanno più anni e possono quindi avere stancato i loro cittadini per usura, ma per la giovanissima Repubblica delle 5 stelle la notizia un po’ sorprende.
La disaffezione è dimostrata dal risultato del referendum digitale, come tutte le cose grilline, che ha ratificato il nuovo codice “etico” dato al suo movimento dal comico di Genova e dalla stretta cerchia di amici o soci politici. Mi chiederete che cosa stia mai scrivendo, visto che ben il 91 per cento dei digitanti ha votato sì al pur farlocco garantismo adottato da Grillo per gli sventurati “portavoce” e amministratori del movimento che incorrono in un avviso di garanzia, tenuti sempre ad informare i loro superiori ma non più a dimettersi automaticamente. Essi possono ora salvarsi col permesso del “garante”, che naturalmente è lo stesso Grillo: una specie di Procuratore Generale unico della sua Repubblica.
Ugualmente esentati dall’obbligo delle dimissioni e dal divieto di proporsi candidati sono, nel nuovo codice a 5 stelle, i condannati in primo grado per reati compiuti “senza dolo”, come l’omicidio colposo nel quale Grillo incorse a suo tempo per un incidente stradale in cui persero la vita alcuni suoi ospiti, dopo che lui si era salvato buttandosi fuori dal Suv che conduceva e stava precipitando in un burrone. Così il buon Grillo, se mai gliene venisse la voglia, potrebbe anche passare dalle tribune, dove ogni tanto si reca per godersi le gesta dei suoi nelle aule della Camera e del Senato, agli emicicli parlamentari, scegliendo, a seconda delle elezioni, quello di Montecitorio o di Palazzo Madama, fortunatamente salvato grazie a lui dal restauro alla rovescia tentato da Matteo Renzi con la riforma costituzionale bocciata esattamente un mese fa.
Sì, d’accordo, l’elettorato digitale dei grillini ha approvato il nuovo codice col 91 per cento dei voti. Ma a digitare sono stati in 40 mila, contro gli 80 mila che parteciparono all’approvazione del codice precedente, quello meno garantista, anzi per niente garantista, diciamo pure forcaiolo. Quello al quale adesso fa in tempo a sottrarsi la giovane e un po’ troppo inesperta sindaca di Roma Virginia Raggi, della quale si dice ormai da settimane che stia per ricevere un avviso di garanzia dalla Procura romana, mentre il suo ex collaboratore Raffaele Marra protesta dal carcere contro gli omissis apposti dai magistrati alle trascrizioni delle sue telefonate intercettate durante le indagini, e riguardanti anche i rapporti con la capa o capessa del Campidoglio.
Un elettorato, per quanto digitale, che si dimezza fra una consultazione e l’altra sulla stessa materia calda come un codice etico, o di comportamento, la dice lunga sulla crisi della più giovane e – sembrava – motivata delle quattro Repubbliche fra le quali noi italiani, con la fantasia che ci ritroviamo, siamo riusciti e riusciamo a vivere.
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Della crisi di disaffezione dell’altra Repubblica che pure sembrava in discreta salute, quella giudiziaria, in qualche modo gestita a sua insaputa, e paradossalmente, da un Consiglio Superiore della Magistratura presieduto dallo stesso Capo dello Stato, ho appena trovato traccia nel giornale che più è informato delle sue attività e più la difende dalle critiche e dai “gargarismi” degli sprovveduti garantisti come noi: naturalmente Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Che si è appena lamentato dell’archiviazione alla quale gli risulta destinato quel filone d’indagini su corruzione o quant’altro per gli affari petroliferi nell’alta Valle del Sauro che portò l’anno scorso alle dimissioni, per quanto non raggiunta da alcun avviso di garanzia, la ministra dello Sviluppo Economico Federica Guidi. La cui unica “colpa” sembra ormai essere stata quella di essersi scelto come compagno di vita un uomo che, quanto meno, non la meritava: cosa questa che capita ad un sacco di donne, non per questo meritevoli di perdere il posto che hanno, o la propria onorabilità.
Qualcosa comunque di disaffettivo, diciamo così, ho l’impressione – magari sbagliata – che stia accadendo anche nel giornale di Travaglio, visto che il suo fondatore Antonio Padellaro ogni tanto si dissocia, pur con l’eleganza che gli è fortunatamente propria, dal giovane successore alla direzione. È accaduto di recente a proposito del nuovo presidente del Consiglio, il conte Paolo Gentiloni Silverj, elogiato da Padellaro nell’ospitale salotto televisivo di Lilli Gruber, a la 7, la sera dello stesso giorno in cui di mattina Travaglio gli aveva sarcasticamente cambiato il nome, secondo un costume che egli ritiene di legittimo esercizio della satira, chiamandolo Genticloni, inteso come clone in proprio e presidente di altri cloni dell’odiato Matteo Renzi. È questione naturalmente di gusti.
Ebbene, su quest’ultima storia di Grillo che il giorno dopo la sua presunta svolta garantista, apparsa a molti giornali come un abito cucito addosso alla signora del Campidoglio, insulta l’informazione scritta e parlata proponendosi di sorteggiare una giuria per processare a modo suo i disinformati e i bugiardi, metterli alla berlina e costringerli alle “scuse col capo chino”, peraltro chino già di suo perché molti giornali si fanno guardandosi le scarpe anziché guardando i lettori, mentre Travaglio ha cercato il modo per trovare qualcosa di buono anche in questo, il buon Padellaro ha assennatamente ricordato al comico genovese che la sua idea “puzza di Minculcop”, di marca naturalmente fascista.
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Ai margini della sfuriata di Grillo contro giornali e telegiornali, fra i quali Mentana ha trovato anche la sigla di quello che dirige a la 7, debbo dire che il mio amico Enrico non se lo meritava proprio il giorno dopo avere rilasciato una intervista nella quale in fondo il comico poteva anche riconoscersi. Mentana aveva infatti rilevato l’impossibilità di controllare e quindi mettere il bavaglio a tutta l’informazione telematica, che tanto ha contribuito al successo elettorale delle 5 stelle.
Ora giustamente Enrico ha deciso di fare causa, civile e penale, a Grillo. Gli auguro di trovare un buon giudice: non a Berlino, come per il mugnaio di Potsdam celebrato da Bertold Brecht, ma in Italia. Io l’ho appena trovato, grazie a Dio, a Brescia ritrovando un po’ di fiducia nella magistratura.