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Come e perché la Russia di Putin studia per la Libia un modello-Siria

La prossima settimana, scrive la Stampa, il ministro degli Interni italiano Marco Minniti sarà a Tripoli per incontri con il Consiglio presidenziale, ossia il proto-governo sostenuto dall’Onu e guidato dal wannabe premier Fayez Serraj. Il motivo della visita sarà cercare una soluzione sui flussi migratori che tagliano il Mediterraneo dal Nordafrica, partenza preferenziale la Libia appunto, e che rappresentano un’enorme crisi umanitaria, in termini di vite giornalmente perse durante la traversata e di difficoltà di risposte dell’Italia nel gestire l’accoglienza. Il piano è prevedere dei cuscinetti nel sud del paese in modo tale da filtrare il grosso dell’immigrazione (la maggior parte di coloro che partono dai porti della Libia non sono libici, infatti, ma vengono dal centro del continente, dalla Nigeria per esempio). Questo schema, per quanto teoricamente ineccepibile, trova delle difficoltà pratiche: Serraj, che da mesi sta cercando di diventare premier chiedendo l’appoggio del parlamento confinato in Cirenaica, la regione che rappresenta il grosso dell’opposizione, non controlla il sud della Libia. La regione del Fezzan è infatti un’area a sé stante rispetto al resto del paese, dove vigono leggi tribali e dove anche le contrapposizioni del nord costiero sono assorbite dagli interessi locali.

LA CRISI DI SERRAJ

Inoltre, Serraj è in crisi di identità: la sua rappresentanza è debole, nonostante sia spinta dall’esterno, ossia dall’appoggio dell’Onu e dell’Europa (con l’Italia in prima fila) e finora anche degli Stati Uniti; si scrive “finora” perché non è chiaro quello che sarà in futuro, quando Donald Trump prenderà pieni poteri alla Casa Bianca. Il programma politico di risoluzione della crisi interna studiato e forzato dall’Onu con l’insediamento nella primavera scorsa di Serraj a Tripoli è in stallo da mesi. E contemporaneamente il rivale di quel programma (che va sotto l’acronimo di Lpa, accordo politico libico, e che dovrebbe portare alla formazione del Gna, il governo di accordo nazionale), il generale Khalifa Haftar, ha guadagnato spazio e consenso, ricevendo un appoggio non più troppo coperto dalla Russia; oltre che quello già esistente di Egitto e Emirati Arabi e prendendo il controllo dei terminal petroliferi (che sotto la sua gestione hanno aumentato le produzioni).

I MESSAGGI DI HAFTAR ALL’ITALIA

Due giorni fa Haftar è stato intervistato da Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera. Il generale che detiene il controllo militare della Cirenaica secondo uno schema che potremmo assimilare a quello del suo amico egiziano Abdel Fattah al Sisi, ha detto al più importante giornale italiano che Roma sulla Libia “s’è schierata dalla parte sbagliata”, ossia con Serraj e non con lui. Il giorno successivo sulla Stampa il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha dovuto precisare che l’Italia “non ha fatto una scelta a favore di qualcuno”, ma ha appoggiato il processo Onu; sebbene il suo stesso predecessore, l’attuale premier Paolo Gentiloni, è uno dei principali referenti internazionale di Serraj, al punto che lo Stato islamico lo ha ripreso un paio di volte in video-messaggi propagandistici in cui Roma, l’amica di Serraj, veniva indicata in cima agli obiettivi usando la sua faccia. Alfano ha anche precisato a proposito di una questione precisa: Haftar al Corsera aveva lamentato che l’Italia non aveva fornito assistenza medica ai suoi uomini che lottano contro infiltrazioni dell’IS nell’area di Bengasi, mentre ha inviato una missione di 300 uomini all’ospedale di Misurata per assistere i combattenti delle milizie pro-Serraj che hanno scacciato il Califfato da Sirte. Dice Alfano che invece un aereo di soccorso sarebbe dovuto partire verso Benina (la base aerea di Bengasi), ma tutto era stato bloccato per “espressa richiesta” del vice presidente e rappresentante di Haftar al Consiglio presidenziale, Ali Gatrani.

ARMI, PIÙ CHE MEDICI

Haftar ha usato la richiesta di aiuti medici per arrivare al punto che lui ritiene fondamentale: la rimozione dell’embargo sulle armi. Il generale dice di ricevere diverse visite da “un vicedirettore dell’intelligence italiana, e dichiara che si aspetta aiuti da tutti per combattere l’IS, ma sa di avere un partner preferenziale. L’embargo è stato imposto nel 2011 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e lì, tra i membri permanenti Haftar ha l’appoggio della Russia: “Putin si impegna per cancellarlo” ha detto Haftar. È molto probabile stante agli indizi emersi in questi ultimi mesi che Vladimir Putin stia pensando di applicare alla Libia una sorta di “modello-Siria”, ossia dare l’appoggio a un uomo forte con la scusa di combattere il terrorismo e con l’obiettivo strategico di ampliare la propria influenza, in questo caso nel Mediterraneo centrale (step applicativi: sostegno non esplicito, consulenza sul campo, pianificazione, intervento più aperto e appoggio militare e politico-diplomatico). Per dire, questo già avviene in maniera più soft che in Siria con Sisi in Egitto, dove il generale/presidente/despota ha una situazione molto più stabilizzata ma ha necessità di un partner forte per sostenere la guerra alle infiltrazioni terroristiche nel Sinai e a quelle della Fratellanza (equiparate con l’accetta del regime), oltre che ricevere sostegno vista la crisi economica: e in cambio Mosca otterrebbe l’uso della base navale di Sidi Barrani e un’opzione per una pista aerea. Haftar potrebbe mettere sul piatto Bengasi e Benina, oltre che l’influenza in Libia.

IL MODELLO-SIRIA

Dell’applicazione del modello-Siria pare si sia discusso in diverse riunioni confidenziali a Mosca tenute da Haftar e da suoi rappresentati (Agila Saleh, la controparte politica e presidente del parlamento eletto esiliatosi a Tobruk che non sta votando l’avallo politico a Serraj; e Abdul Basit al Badri, ambasciatore libico in Arabia Saudita, tra i link di Haftar al Cremlino). Viaggi e incontri che si sono moltiplicati durante l’estate e fino a un mese fa, quando a novembre sarebbero arrivati già dei consiglieri militari russi in Cirenaica, mandati intanto con il compito di provvedere all’aggiornamento degli apparati militari di Haftar (altri, invece, fanno base al Cairo, e si spostano su richiesta). Haftar avrebbe già pronto un tesoretto da investire in armi russe, e magari potrebbero essere i dinari che la Goznak, azienda statale russa, ha stampato a maggio in violazione delle stabilità imposta dall’Onu a maggio per rimpinguare le casse della non ufficiale banca centrale di Beida, ossia dell’Est libico. A dare fiducia Putin, l’effetto positivo (in fin dei conti) avuto in Siria.

L’EMBARGO E IL CDS

L’eliminazione dell’embargo sarebbe in effetti un game changer nel conflitto libico, che aprirebbe al rischio di un’escalation delle tensioni: al Corsera il generale ha detto per due volte che le milizie di Misurata sono alleate dell’IS, affermazione contorta, se si pensa che sono stati proprio i misuratini a condurre l’offensiva che ha liberato Sirte. Però nell’ottica di Haftar chiunque non è con lui è contro di lui, e per semplificare viene definito un terrorista (la visione è simile a quella dei rais in Egitto e Siria). Per capirci: su Serraj dice che “il problema non è lui, bensì le persone che gli stanno attorno. Se intende davvero lottare per pacificare il Paese, impugni il fucile e si unisca ai nostri ranghi”. Da Misurata, i sostenitori di Serraj detestano altrettanto Haftar, e il rischio scontri è altissimo (e in parte già iniziato, anche se in sordina), con la capitolazione della crisi in guerra civile. La situazione torna ancora vicinissima all’Italia e non solo geograficamente: Roma dall’inizio dell’anno è membro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ossia avrà voce in capitolo se eventuali passaggi che riguardano l’embargo militare dovessero arrivare sul tavolo. In tutto questo, la linea italiana finora ha trovato solido appoggio negli Stati Uniti, ma Washington sta cambiando e i segnali sembrano portare verso Mosca.



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