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La Libia, l’Italia e la guerra allo jihadismo

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I fatti dicono che c’è stata un’accelerazione nella prevenzione e nella lotta al terrorismo. Dopo tre espulsioni in una settimana tra la fine dell’anno e l’Epifania, arriva l’operazione della Digos di Roma d’intesa con la Polizia penitenziaria che ha portato all’arresto di un tunisino di 34 anni, Saber Hmidi, già in carcere a Rebibbia per altri motivi. Hmidi è accusato di far parte di Ansar al Sharia, affiliata all’Isis, e l’operazione conferma l’importanza del controllo delle carceri. Il tunisino, infatti, si è radicalizzato a Velletri nel 2011, successivamente ha ottenuto una bandiera simile a quella nera dell’Isis (l’operazione infatti è stata chiamata “Black flag”) e in tutti gli istituti nei quali è stato imprigionato ha tentato di fare proselitismo ed è stato autore di diversi atti di violenza, da Civitavecchia a Frosinone, da Napoli Secondigliano a Salerno. Gli investigatori hanno precisato che, una volta libero, voleva andare in Siria a combattere portando con sé la sua famiglia e che non c’è nessun elemento che faccia pensare a progetti di attentati in Italia.

L’operazione ovviamente era stata programmata nei giorni precedenti e non segue il corso della politica, anche se è arrivata a poche ore dalla visita in Libia del ministro dell’Interno, Marco Minniti. Una visita che porta con sé come prima novità la riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli, retta da Giuseppe Perrone, e che per il resto è solo il primo passo di un percorso lunghissimo e complesso. Il comunicato stampa del Viminale diffuso nella serata del 9 gennaio è inevitabilmente generico e diplomatico con due passaggi rilevanti: uno tecnico e l’altro politico. Quello tecnico è il “progetto di memorandum d’intesa per l’esame congiunto in preparazione della sua approvazione” per la lotta all’immigrazione clandestina e al traffico di esseri umani: non un’intesa, dunque, ma l’avvio di colloqui che significherà definire modi e quantità degli aiuti che l’Italia sarà disponibile a mettere sul piatto, dalle 10 motovedette per consentire ai libici di controllare meglio le loro coste al sistema radar realizzato dalla Selex per monitorare le frontiere. Temi già al cuore del vecchio accordo tra l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi.

L’inciso politico è invece rilevante perché nella nota si afferma che “è stato ribadito il sostegno pieno dell’Italia al governo di accordo nazionale e al ruolo della Libia nel contrasto al terrorismo”. Il governo è quello guidato dal presidente del Consiglio presidenziale, Fayez al Serraj, che Minniti ha incontrato. La domanda resta perciò sempre la stessa: come si fa a stipulare un accordo con una Libia frammentata? È noto a tutti che il generale Khalifa Haftar, uomo forte di Tobruk, non vuole saperne di al Serraj e in un’intervista al Corriere della Sera del 3 gennaio ha detto chiaramente che “purtroppo sino a ora l’Italia ha scelto di aiutare l’altra parte della Libia”, citando espressamente l’ospedale militare aperto a Misurata le cui milizie si aggiungono alla Folgore nella protezione, “e a noi nulla”. Il messaggio a tutti gli stranieri è di non immischiarsi e di “lasciare la Libia ai libici”.

Giusto per mettere altro peperoncino in un piatto già molto piccante, Khalifa Ghwell, ex premier del fu governo islamista che tentò un colpo di stato nell’ottobre scorso ai danni del governo nazionale, ha chiesto esplicitamente al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, di ritirare il contingente italiano a Misurata paragonandolo al colonialismo fascista. Il significato è: ci siamo anche noi. Ma l’elemento più preoccupante dal punto di vista politico è rappresentato dalle parole del vicepremier del governo di unità nazionale, Ahmed Maitig, che appena conclusa la visita di Minniti dice a La Stampa che “no, questo non si può fare” alla precisa domanda sul permesso da concedere alle navi italiane di arrivare fin sulle coste libiche per fermare gli scafisti. Anche qui la sintesi è nota da sempre: dateci mezzi e soldi, al resto pensiamo noi. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

Se è questa la posizione del governo libico, riconosciuto dall’Onu e sostenuto dall’Italia, le vie dell’accordo sono impervie. È stato il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, a ricordare pochi giorni fa che per affrontare alla radice il problema degli sbarchi bisogna arrivare sulle coste libiche. Infatti, oggi siamo ancora nella fase 2-A della missione europea Eunavfor Med che consente in alto mare “fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico o la tratta di esseri umani”. La tanto attesa fase 2-B dovrebbe avvenire in acque libiche, ma occorre una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu e soprattutto un invito da parte della Libia. La risoluzione non sarebbe un problema perché è nell’interesse di tutti e grazie al fatto che l’Italia dal 1° gennaio è membro non permanente del Consiglio. Ma se i libici si fanno la guerra tra loro e comunque non vogliono gli stranieri, come si fa?

L’Italia ha il comando di Eunavfor Med-Operazione Sophia con l’ammiraglio Enrico Credendino, dal quale dipende l’ammiraglio Giuseppe Berutti Bergotto, Force commander in mare su nave Garibaldi. Alla fine dello scorso novembre si concluse il secondo ciclo addestrativo curato dalla Marina militare italiana in favore della Marina e della Guardia costiera libiche: 78 militari e 5 tutors furono accolti sull’unità anfibia San Giorgio e sulla nave olandese Rotterdam. L’addestramento proseguirà solo sulla San Giorgio fino alla prossima primavera, quando si concluderà la prima delle tre fasi addestrative. Nel frattempo tutta l’attenzione sarà concentrata su quel “memorandum d’intesa”, contando anche sul ruolo fondamentale dell’ambasciatore Perrone visto che l’ambasciata sarà “centro di coordinamento principale di tutti questi progetti”, come recita la nota del Viminale. Incrociando le dita.

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