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Donald Trump e la valigetta nucleare

Trump

Il presidente eletto Donald Trump ha ricevuto da poche ore i piani nucleari americani e si troverà a dovere prendere alcune decisioni determinanti per il futuro del pianeta.

L’eredità più terribile che un nuovo presidente degli Stati Uniti riceve dal proprio predecessore è la valigetta nucleare: il potere di decidere se distruggere il pianeta.

Da Kennedy in poi, la maggior parte dei presidenti – che in campagna elettorale si erano invariabilmente presentati come gli uomini forti che avrebbero salvato l’America – sono rimasti letteralmente storditi quando sono stati informati sui piani di guerra nucleare.

Mentre Donald Trump assume i pieni poteri, la politica nucleare americana si trova in una fase altamente critica. L’amministrazione entrante si troverà di fronte almeno cinque fattori che la costringeranno a scelte di importanza storica per il futuro della strategia nucleare americana e, di riflesso, per il futuro dello stesso pianeta.

Prima di tutto, il mondo si trova nel pieno di una trasformazione tecnologica che rischia di ribaltare la stabilità strategica che ci ha permesso di sopravvivere per tutta la Guerra fredda: un equilibrio basato sulla vulnerabilità reciproca fra i paesi dotati di armi nucleari. Questo equilibrio del terrore è basato sul fatto che sono impossibili attacchi preventivi counterforce – il repentino lancio di armi nucleari contro gli arsenali nucleari avversari allo scopo di disarmarlo e rendere impossibile una rappresaglia – così come è sempre risultato impossibile realizzare un sistema di difesa in grado di intercettare un attacco nucleare avversario. Il principio della Mutual assured destruction (la Mutua distruzione assicurata, che non a caso ha come acronimo Mad, matto) garantisce che nessuna potenza nucleare voglia attaccare per prima perché non sarebbe in grado né di distruggere l’intero patrimonio nucleare avversario né di intercettare i missili lanciati per vendetta.

Inoltre, una volta che una nazione si è assicurata la capacità di attuare con le proprie forze una rappresaglia totale contro un’eventuale aggressione, non ha molto senso continuare a costruire altre armi nucleari o armi più efficaci. Non ha senso investire risorse per diventare la prima potenza nucleare del pianeta e avere un arsenale più vasto e preciso degli altri: tanto il mondo non può essere annientato più di una sola volta.

In realtà, gli Stati Uniti non hanno mai digerito fino in fondo il principio insito nella Mad ma hanno spesso tentato, nel corso di differenti amministrazioni, di scavalcarlo. L’esempio più assurdo è dato dalla Strategic defense initiative – subito ribattezzato le Guerre stellari di Reagan. Questi aveva canalizzato la quasi totalità degli investimenti scientifici e tecnologici del Paese nel tentativo di realizzare un aumento della precisione delle testate nucleari allo scopo di colpire efficacemente gli arsenali sovietici prima che fossero attivati. C’era poi anche uno scudo spaziale basato su fantascientifiche armi laser che dallo spazio avrebbero colpito e annientato le testate del Cremlino lanciate per rappresaglia. Negli anni ’80, colleghi scienziati americani raccontavano ai congressi internazionali che l’unico modo per avere finanziamenti statali per la propria ricerca (su qualsiasi argomento) consisteva nel dimostrare che si poteva integrare in qualche modo nelle Guerre stellari.

Oggi questo equilibrio risulta sempre meno stabile. Sono sempre più significativi i miglioramenti nell’accuratezza e nella potenza penetrante con cui un missile può colpire un bersaglio, tipicamente rappresentato da un arsenale nucleare avversario nascosto dentro un bunker o sotto una montagna. Così come aumenta la velocità delle testate e la loro capacità di attuare contromisure elettroniche per impedire intercettazioni. Queste innovazioni sono combinate con una sempre più raffinata sensoristica e potenza informatica per permettere di individuare la posizione delle batterie di missili mobili e aggiornare rapidamente le traiettorie dei missili destinati a distruggerle. Inoltre, i falchi di Washington continuano a puntare alla primazia nucleare, e a ostacolare qualsiasi strategia per il controllo degli armamenti, allo scopo di mantenere credibile la loro posizione di forza nei confronti degli alleati.

In secondo luogo, la stessa rivoluzione tecnologica che ha reso sempre più vicino l’obiettivo di un efficace attacco preventivo counterforce, ha reso sempre più confusa la linea di demarcazione fra armi nucleari e armi non nucleari. Il presidente Usa potrebbe guidare lo sviluppo di nuove armi in modo da porsi in condizione di scatenare attacchi preventivi con armi non nucleari. Oggi, per sperare di essere efficaci, missioni di questo tipo devono essere di competenza esclusiva di armi atomiche in grado di distruggere bunker e penetrare in profondità in montagne dove si prevede siano nascoste le armi di rappresaglia del nemico. Domani, potrebbe essere possibile che questi obiettivi possano essere raggiunti da un arsenale convenzionale costituito da armi ipersoniche come i rail-gun, armi a energia diretta o missili con un’intelligenza artificiale talmente sviluppata da poter prendere decisioni autonome sul bersaglio da colpire.

Una strategia di questo tipo presenta un’elevata serie di sfide. Dall’Afghanistan all’Iraq al Califfato, gli Stati Uniti combattono le loro guerre (convenzionali) puntando a disarticolare le capacità di comando, controllo, comunicazione e intelligence dell’avversario nelle prime ore del conflitto. In futuro, questo approccio potrà portare una potenza nucleare avversaria attaccata a percepire questa azione non come un attacco limitato al raggiungimento di un obiettivo tattico contenuto, ma a un tentativo di disarmare la propria capacità di ritorsione nucleare. E’ evidente che lo Stato aggredito verrebbe immediatamente spinto a portare il livello di scontro sul piano nucleare lanciando tutte le micidiali armi di cui è dotato.

Inoltre, è tutt’altro che garantito che avanzamenti nelle tecnologie convenzionali siano sufficienti a sostituire del tutto missioni oggi necessariamente nucleari con nuove missioni interamente convenzionali. Gli avversari, e gli stessi Stati Uniti, continuano a rinforzare e rendere più profondi e complessi i loro sistemi di bunker o a nascondere e rendere sempre più mobili le loro forze nucleari. Un esempio eclatante è costituito dai nuovi treni nucleari russi Barguzin, in grado di sparpagliare testate e lanciatori nucleari su 85.000 km di binari, mescolandoli fra 930.000 comuni vagoni merci.

In terzo luogo gli obiettivi della deterrenza e del disarmo nucleare stanno entrando sempre più in conflitto fra loro: sia l’opinione pubblica che i governi degli stati privi di armi nucleari stanno diventando irrequieti a causa della lentezza degli accordi e dei programmi di smantellamento delle testate. I movimenti che spingono per la messa al bando delle armi nucleari si stanno coalizzando a livello mondiale e anche negli Stati Uniti uno dei motivi che ha spinto gli elettori a non sostenere la candidata democratica può essere dovuto al fallimento delle promesse di disarmo fatte da Obama otto anni fa. Quelle che gli valsero il primo premio Nobel per la Pace, mai assegnato sulla base di promesse e non su una carriera di atti realmente compiuti. Invece, al termine di due mandati, quegli stessi elettori si sono trovati davanti un multidecennale e multimiliardario piano di ammodernamento delle forze nucleari americane.

Un quarto motivo è dovuto al costante aumento delle tensioni fra gli stati nucleari. Queste tensioni possono essere regionali, come quelle esistenti nel Sud Est asiatico – e potenzialmente anche nel Medio Oriente – prodotte da regimi completamente fuori controllo anche dal punto di vista del buon senso comune, come la Corea del Nord, o stati con comportamenti sempre più aggressivi nel settore nucleare, come il Pakistan, o regimi ancora non completamente affidabili e con una brutta storia alle spalle come l’Iran. Ma molto più pericolose sono le tensioni su scala più grande fra grosse potenze nucleari, come le crescenti frizioni marittime fra la Cina, il Giappone e la Corea del Sud (queste ultime sotto l’ombrello nucleare americano) oppure come la progressiva militarizzazione americana delle ex repubbliche sovietiche (Polonia e Paesi Baltici) in chiave palesemente antirussa.

Infine, le strategie nucleari pongono gli stessi militari di fronte a problemi non solo etici (che non pare abbiano mai rappresentato un grave cruccio per loro) ma soprattutto reputazionali. Da una parte, una seria strategia nucleare rimane un elemento chiave per una grande potenza: per spaventare gli avversari, per raccogliere e rassicurare gli alleati e per limitare la proliferazione di armi nucleari fra gli alleati stessi. D’altra parte, se si esclude l’impiego di armi nucleari per rappresaglia dopo un improvviso, quanto sempre più improbabile, attacco nucleare counterforce, rimane da immaginare quale spaventosa situazione internazionale potrebbe spingere un presidente ad aprire la valigetta nucleare e a fare partire per primo anche un solo missile contro un qualsiasi obiettivo. Le industrie degli armamenti e i militari stessi non gradiscono discuterne, ma le conseguenze del lancio di una piccola testata su un obiettivo limitato (ad esempio su una qualche isolata base nordcoreana che stesse lanciando uno degli sgangherati missili di Kim Yong Un contro la Corea del Sud) avrebbe conseguenze così orribili sulla popolazione, sull’ecosistema e sul clima del pianeta da rendere il loro impiego inimmaginabile anche nelle più remote e disabitate regioni del globo.

Queste tensioni morali hanno dato un contributo significativo al mantenimento della pace nucleare anche nei momenti più pericolosi della Guerra fredda, come le due crisi parallele dei missili a Cuba e degli euromissili in Europa. Dopo settanta anni dal loro primo (e ultimo) impiego reale, il presidente che lancerà armi nucleari sarà certamente isolato dall’intera comunità internazionale a prescindere dalla gravità delle motivazioni che lo avranno portato a compiere questo passo.

In conclusione, entrando nello studio ovale, Trump trova sul suo tavolo la valigetta nucleare insieme a una serie di domande cui dovrà dare risposta.

Gli Stati Uniti continueranno a lavorare insieme alla Russia per arginare la proliferazione nucleare, anche contro gli interessi militari dei propri stessi alleati (Germania, Giappone, Corea del Sud…)?

Gli Stati Uniti proseguiranno con la politica del doppio binario condotta fino ad ora, da una parte firmando accordi di non proliferazione come i trattati Abm, Salt, Salt II e dall’altra investendo in tecnologie sempre più mirate a un possibile impiego limitato sul campo come i missili Mx, Cruise, Trident, Pershing II e in parallelo le difese antisottomarino o gli scudi spaziali?

Continuerà l’azione verso il suo nemico storico con l’installazione di sistemi di lancio, antimissile e basi militari in Polonia e nelle Repubbliche Baltiche a ridosso dei confini russi?

Deciderà di mantenere, rilanciare o rallentare l’impegno americano verso lo sviluppo di armi intelligenti sempre più svincolate dal controllo di operatori umani?

Rimarrà coerente con la filosofia dei propri predecessori o inizierà a porsi il problema di capire se la deterrenza nucleare abbia effettivamente, fino ad ora, avuto una reale influenza nelle relazioni fra Stati? La minaccia nucleare si basa, infatti, su caratteristiche non misurabili: sulla percezione della paura, dell’incertezza o degli scrupoli che si pone l’avversario. Tutti caratteri che non si manifestano prima di un evento (e quando la deterrenza funziona, non si verifica nessun evento). Per questo tutte le ipotesi degli analisti sull’influenza delle armi nucleari sulle strategie e sulle politiche mondiali rimangono scritte sulla sabbia finché, molto tempo dopo, non vengono pubblicati libri di memorie e i verbali delle riunioni tenute nelle varie situation rooms.

Trump deciderà che ha ancora senso il concetto stesso di deterrenza legato al possibile impiego di armi che non si possono usare senza creare una catastrofe morale, ambientale e politica che poterà all’isolamento internazionale del paese che per primo ne farà uso?

Mi auguro che, fra qualche anno, l’Accademia Reale di Stoccolma deciderà di assegnare il premio Nobel per la Pace a Donald Trump non sulla base delle promesse fatte in campagna elettorale – come è successo per il suo predecessore – ma per aver dato un contributo tangibile e concreto alla pace del mondo.


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