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L’Italia, la Libia e l’autobomba a Tripoli

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Un’auto “piena di esplosivo” (dice la nota della Farnesina) è saltata in aria uccidendo le due persone a bordo a Tripoli, nei pressi dell’ambasciata italiana. La detonazione è avvenuta nella serata di sabato, poco dopo le 19, ad al Dahra, un quartiere centrale della capitale libica, che ospita tra le altre cose l’ambasciata egiziana, la sede della banca Shaman Africa, il ministero della Pianificazione e l’hotel Libya Palace (l’edificio più vicino all’esplosione).

È molto probabile che si sia trattato di un attentato, ma al momento non ci sono rivendicazioni per l’attacco e non è chiaro nemmeno quale fosse l’eventuale obiettivo. Ahmed Maitig, il vice di Fayez Serraj – il capo del progetto politico che sta cercando di creare un governo di pacificazione veicolato alle Nazioni Unite –, ha incontrato poco dopo l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone per rassicurarlo sull’impegno del suo governo a difesa della delegazione italiana. Quella inviata da Roma è l’unica occidentale presente con sede operativa in Libia, dopo che il 10 gennaio l’ambasciata italiana è stata riaperta: un altro segno di sostegno completo a Serraj e al progetto Onu, che si è portato dietro strascichi polemici alzati sia dall’opposizione Tripolitana che da quella Cirenaica.

A Tripoli l’ex autoproclamato primo ministro Khalifa Ghwell ha cercato per la seconda volta in tre mesi di prendere il controllo delle sedi di alcuni ministeri con un colpo di mano, di nuovo fallito. L’azione più che un golpe era un avvertimento su come la situazione all’interno di quello che dovrebbe essere il bacino di consensi del governo Serraj sia delicata: e non sono mancati i riferimenti al passato coloniale italiano, assimilato al presente nella riapertura dell’ambasciata.

Stesso tema è stato calcato dal generale Khalifa Haftar, che guida la forte opposizione che dall’Est non solo si oppone ma blocca il percorso guidato del governo onusiano, impedendo all’esecutivo esiliatosi a Tobruk di votare la fiducia al governo nazionale (Gna): gli uomini di Haftar, che riceve sostegno dalla Russia, dall’Egitto e dagli Emirati Arabi, nell’ultima settimana hanno paragonato la presenza italiana all’occupazione fascista (due giorni fa a Jebel Akhdar la popolazione haftarista ha bruciato il Tricolore in piccole proteste di piazza).

Secondo il Libya Obeserver (il primo a parlarne), gli uomini delle milizie tripoline che difendono l’ambasciata italiana dall’esterno, avrebbero visto l’auto aggirarsi sotto l’edificio nel tentativo di trovare un parcheggio: a quel punto gli avrebbero chiesto di andarsene, ma uno di loro, insospettitosi l’avrebbe seguita per i quattrocento metri che dividono lo stabile in cui risiedono i diplomatici italiani e il punto dell’esplosione. Se così, fosse – con tutte le possibili controversie delle informazioni raccolte dalle fonti sul posto, l’obiettivo dell’attacco sarebbero stati proprio gli italiani. La Farnesina ha detto che “il dispositivo di sicurezza locale messo a protezione della cancelleria diplomatica ha funzionato perfettamente” e che “il personale in servizio presso la sede diplomatica non è stato coinvolto dall’attacco e sta bene”.

Le modalità d’azione, quella dell’attentato kamikaze, potrebbero portare a pensare anche che l’attacco abbia una matrice di tipo terroristico-jihadista, come quelle dell’IS – esclusa in parte dai funzionari libici sentiti dai media locali (ma anche qui, da prendere con cautela). Negli ultimi giorni le postazioni dei baghdadisti fuggiti da Sirte sono state colpite sia da bombardamenti americani sia da raid aerei, a Bani Walid, operati dai misuratini, la principale milizia alleata dell’Onu. L’attacco potrebbe essere uno dei tanti tentativi di creare confusione inserendosi nel dibattito politico – quello attorno all’ambasciata italiana – da parte del Califfato.

 

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