Ora che la Corte Costituzionale gli ha messo in tasca la carta di riserva di un nuovo Italicum immediatamente applicabile, senza il ballottaggio e con le unghie tagliate ai capilista candidati in più posti, che ora dovrebbero fare i conti col sorteggio, Matteo Renzi si è messo a preparare un intervento forte all’appuntamento di sabato a Rimini con gli amministratori locali del Pd.
Sarà peraltro un sabato politicamente affollato. Nello stesso giorno, a destra il leghista Matteo Salvini e la sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni hanno organizzato una manifestazione per le elezioni subito, cui Silvio Berlusconi, pur non volendole presto, ha dovuto rassegnarsi a fare andare qualcuno di Forza Italia per non aggravare i rapporti già a pezzi col segretario del Carroccio. A sinistra invece Massimo D’Alema parteciperà ad un incontro romano fra i comitati referendari del no alla riforma costituzionale, che vorrebbero rifesteggiare la vittoria del 4 dicembre e tradurre quel no in un sì alla costruzione di un nuovo centrosinistra. Che però, secondo D’Alema, sarebbe incompatibile con la permanenza di Renzi alla guida del partito, per cui il congresso, se non fosse anticipato dalle elezioni, dovrebbe servire a cacciarlo via. Ma l’ex sindaco di Firenze non ha naturalmente voglia di favorire anche questa ritorsione del rottamato.
In attesa del discorso di sabato ai sindaci piddini, Renzi ha fatto sapere di essere “molto soddisfatto” del verdetto dei giudici costituzionali, e deciso a non subire “la melina” di chi, fuori e dentro il suo partito, vuole ritardare le elezioni per cucinarlo ben bene, come vuol fare appunto D’Alema con quelli che ancora lo rappresentano in qualche modo, o ne seguono gli umori, nei gruppi parlamentari del Pd. L’alternativa, per il segretario del partito, è fra il ritorno al sistema elettorale prevalentemente maggioritario che porta il nome latinizzato del presidente della Repubblica, Mattarellum, o il voto alla Camera con l’Italicum corretto dalla Corte Costituzionale – e da questa indicata esplicitamente come agibile, tanto per non lasciare dubbi – e al Senato col vecchio Porcellum, anch’esso cambiato dai giudici del Palazzo della Consulta e ora chiamato infatti Consultellum.
È significativo che la posizione di Renzi sia stata fatta propria e spiegata in una intervista, subito dopo il verdetto della Corte Costituzionale sull’Italicum, dal capogruppo del Pd alla Camera Ettore Rosato, della corrente del ministro Dario Franceschini. Su cui invece gli avversari interni di Renzi scommettevano sino a ieri per fermare il conto alla rovescia verso le elezioni entro giugno.
Un altro su cui nel Pd gli avversari di Renzi speravano e forse ancora sperano di fare breccia è il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, per quanto ne deprezzino il governo come fotocopia del precedente. Ma fonti bene informate garantiscono che Gentiloni abbia poca voglia di preparare in autunno una difficilissima e impopolare legge finanziaria, o come diavolo si chiama, le cui misure entrerebbero in vigore all’inizio del nuovo anno, quando cioè si sarebbe ormai a poche settimane dalle elezioni alla scadenza ordinaria della legislatura. E la poca voglia di Gentiloni di diventare la vittima tombale di elezioni ordinarie comincia ad essere compresa anche al Quirinale.
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Se il cosiddetto Mattarellum, sperimentato a vantaggio sia del centrodestra sia del centrosinistra fra il 1994 e 2001, non ce la facesse a tornare per l’opposizione dichiarata di Silvio Berlusconi e quella non dichiarata ma sostanzialmente condivisa anche dalla solita parte del Pd che dice una cosa e in realtà ne fa o ne persegue un’altra, con la nuova versione dell’Italicum e il Consultellum-ex Porcellum il Parlamento tornerebbe ad essere eletto di fatto col sistema proporzionale della prima Repubblica, forse troppo ingiustamente odiata. Le due leggi pertanto sarebbero molto meno lontane o disarmoniche delle apparenze lamentate da chi preferisce votare il più tardi possibile.
È vero che l’Italicum nella versione corretta dai giudici costituzionali ha perso il ballottaggio, ma ha conservato un vistoso premio di maggioranza perché nel primo e unico turno di elezioni la lista che dovesse raggiungere il 40 per cento dei voti si prenderebbe quasi il 55 per cento dei seggi della Camera. È anche vero però che, nelle condizioni attuali, nessun partito da solo riuscirebbe a raccogliere il 40 per cento, nonostante le sbruffonate dei grillini in queste ore. Pertanto, non potendo essere assegnato il premio di maggioranza, anche i seggi della Camera finirebbero distribuiti col sistema proporzionale. Che sulla carta permette alle forze politiche di definire le proprie alleanze di governo dopo e non prima del voto.
Ma anche qui bisogna essere onesti e raccontare bene le cose. Non è vero che nella prima, disprezzata Repubblica le alleanze si facevano alle spalle degli elettori, dopo avere svuotato le urne. La Dc, che era allora il partito centrale, le sue alleanze le perseguiva alla luce del sole prima delle elezioni. Dalla stagione del centrismo si passò, per esempio, al centro-sinistra nel 1963 dopo un congresso democristiano convocato proprio per questa scelta e un turno elettorale.
Chi rivendica esplicitamente il diritto di fare le alleanze solo dopo le elezioni è ora soltanto Grillo, rifiutando per principio accordi con altri. Pertanto, se gli dovesse davvero capitare di portare il suo partito in testa alla classifica elettorale, ma senza la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, delle due l’una: o non potrebbe governare o per governare dovrebbe scegliere solo dopo le elezioni, e quindi alle spalle dei suoi elettori, gli accordi o le combinazioni necessarie a conquistarsi la fiducia parlamentare. Chiaro?
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Non è infine detto che l’Italicum, nella versione uscita dal verdetto della Corte Costituzionale, per il fatto di prevedere il ballottaggio solo tra le due liste più votate, non possa ugualmente produrre coalizioni e un effetto maggioritario. Fatta eccezione per il solito Grillo e la sua orgogliosa solitudine, o “diversità” di berlingueriana e paradossale memoria, essendo la buonanima di Enrico Berlinguer e il comico genovese due figure imparagonabili, sia il Pd sia Berlusconi potrebbero aprire le loro liste a candidati di altri partiti e diventare appunto coalizioni. Delle quali almeno una, quella del Pd, avrebbe forse anche i numeri per l’assegnazione del premio di maggioranza col raggiungimento della soglia del 40 per cento dei voti.
Il già citato capogruppo piddino della Camera, Rosato, non a caso ha detto, parlando del suo partito: “Nessuno vieta che non si possa fare una lista aperta ad altre forze ed esperienze della sinistra”. Allude a Giuliano Pisapia, l’ex sindaco post-bertinottiano di Milano?, gli è stato chiesto. “Proprio a lui”, ha risposto il capogruppo di Montecitorio.
Forse Rosato è troppo ottimista, essendo la sinistra ancora più spappolata del centro. Ma la sua è, quanto meno, una ipotesi di scuola. Come potrebbe tornare ad esserlo quello che fu il centrodestra se Silvio Berlusconi, peraltro in attesa paralizzante del verdetto della Corte di Strasburgo sui suoi ricorsi contro lo stato di incandidabilità in cui si trova, rinunciasse a pensare che dalle parti di quella che fu la sua coalizione le carte debba darle soltanto lui.