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La dichiarazione di Lisbona

Si sono riuniti ieri per la seconda volta a Lisbona i Capi di Stato e di Governo di Cipro, Francia, Grecia, Italia, Malta, Portogallo e Spagna, i paesi della sponda sud della UE, tutti appartenenti alla zona euro.

La dichiarazione sulla quale hanno trovato un accordo unanime riafferma il principio che occorre maggiore, non minore integrazione in Europa, che l’uscita dalla UE non è un opzione e che servono urgentemente passi ulteriori per completare l’unione bancaria entro la prima metà del 2017, rafforzare la dimensione della solidarietà economica sociale, arrivare ad una fiscalità europea, difenderci dal terrorismo, rilanciare le prospettive delle generazioni future creando posti di lavoro, etc.

È vero che si tratta di tutte cose che ieri apparivano scontate, ed oggi un po’ meno, visto l’andazzo generale. E che quindi fa piacere leggere.

Ma dove sta la notizia? Quale sarebbe il segnale, sempre più urgente, che cittadini e imprese aspettano da quasi dieci anni per indicare quale strategia si intende percorrere per raggiungere una maggiore integrazione in Europa? Quali impegni vengono assunti dai Capi di Stato e di Governo nei confronti dei propri cittadini? Quali passi intraprendere concretamente per arginare l’euroscetticismo e l’impasse nella governance economica e politica dell’Unione? Come creare posti di lavoro, rilanciare la crescita, aumentare la coesione sociale, difenderci dalle minacce terroristiche?

Di questi argomenti concreti, cruciali per i cittadini europei, che ormai si sono scocciati delle prese di posizione fini a sé stesse, non c’è traccia nel documento.

Eppure non era così difficile: potevano concludere la dichiarazione lanciando una cooperazione rafforzata nel campo del completamento dell’Unione economica e monetaria, con la proposta di un Tesoro federale europeo, mettendo così sotto pressione la Germania e la sua area d’influenza. Potevano spiegare che solo una procedura costituente può riscrivere seriamente il modo in cui la Ue funziona, in cui vengono assunte le decisioni, per dare efficacia e legittimità democratica alla governance dell’eurozona e della UE. Avrebbero potuto pure minacciare gesti clamorosi, tipo rivolgersi ad un diverso processo d’integrazione magari rivolto al bacino del Mediterraneo, se gli altri paesi non mostreranno serie intenzioni di procedere oltre questa integrazione europea debole.

E invece nulla; semplicemente un bel documento d’intenti. Proprio quello di cui si sentiva il bisogno per rassicurare i cittadini, per invertire le aspettative delle imprese e riprendere ad investire, per garantire solidarietà e difesa dello stato sociale.

Forse non è sufficientemente chiaro. La Brexit, l’elezione di Trump che in una settimana ha smantellato tutto l’apparato di relazioni internazionali faticosamente costruito negli anni passati, la crisi dell’eurozona, le problematiche che investono la UE hanno inserito nel processo d’integrazione europea un maledetto Fattore Tempo. O si procede rapidamente verso una soluzione integrata dei problemi dei cittadini europei, costruendo una democrazia sovranazionale capace di agire, o l’Europa si troverà ad affrontare anni terribili, schiacciata dal proprio peso di gigante dai piedi d’argilla e dalle potenze limitrofe, condannata alla marginalizzazione ed alla frammentazione crescente.

Le dichiarazioni generiche, per quanto nella giusta direzione e sicuramente animate da buoni intenti, non servono a nulla e a nessuno. Non mettono pressione su chi è recalcitrante, non convincono i cittadini che devono andare a votare, non costituiscono un impegno politico. Solo con i fatti si smuovono i processi storici. E finora, di fatti, se ne continuano a vedere davvero pochi, in Europa.


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