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Vi racconto la prossima battaglia della guerra di Massimo D’Alema a Matteo Renzi

MASSIMO D'ALEMA

Spero tanto che non sia stata la terzultima, visto che sta per chiudersi il conto alla rovescia dell’Unità verso l’ennesimo salvataggio o l’altrettanto ennesima uscita dalle edicole, la vignetta del suo anziano ma pugnace e sarcastico direttore Sergio Staino che meglio non avrebbe potuto rappresentare la drammatica situazione del partito di riferimento dello storico giornale della sinistra fondato nientemeno che da Antonio Gramsci. Parlo naturalmente del Pd, sopraggiunto al Pci dello stesso Gramsci e poi di Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Enrico Berlinguer, Alessandro Natta, Achille Occhetto e via declinando con altri simboli e sigle, oltre che segretari.

Alla figlia che gli chiede se decideranno di fare prima il congresso di partito o le elezioni, che il segretario Matteo Renzi vorrebbe al massimo a giugno, con poco più di un semestre di anticipo rispetto alla scadenza ordinaria della legislatura, uno sconsolato Bobo risponde: “Dipende se vogliamo ammazzarci tra di noi o farci ammazzare dagli altri”.

Chissà se e come si sarà gustata questa vignetta Massimo D’Alema, deciso ad andarsene dal Pd e ad allestire una lista in proprio se si dovesse andare alle elezioni anticipate senza un congresso, o qualcosa di simile, che tolga a Renzi, nella gestione delle candidature, quel che gli resta delle unghie già tagliategli con la bocciatura referendaria della riforma costituzionale.

L’obiettivo di D’Alema naturalmente non è di vincere lui le prossime elezioni politiche, sapendo bene che al massimo i sondaggi gli attribuiscono il 14 per cento dei voti: poco meno di Silvio Berlusconi e quasi quanto Matteo Salvini. Che però, almeno sulla carta, potrebbero ancora improvvisare con la sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ed altri volenterosi, o sopportati, un listone unico per inseguire il sogno del 40 per cento: la soglia fissata dalla legge elettorale per aggiudicarsi il premio di maggioranza e coprire quasi il 55 per cento dei seggi della Camera, meno al Senato.

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All’ingrigito D’Alema, che si è ironicamente definito “riservista”, basta molto meno per sentirsi soddisfatto e cantare vittoria. Gli basta, e gli avanza, sottrarre a Renzi i voti sufficienti per distanziarlo ancora più di quanto già non sia lontano dal sognato 40 per cento. Che è insieme, nella immaginazione del segretario del Pd, la soglia della legge elettorale per l’aggiudicazione del premio di maggioranza, e una conseguente vera vittoria, e la quantità di sì raccolta il 4 dicembre scorso nelle urne referendarie dalla sua riforma costituzionale, bocciata dal rimanente 60 per cento, o poco meno, degli elettori.

In pratica D’Alema è come quel tale che per fare dispetto alla moglie si taglia gli attributi. Un sacrificio eroico – si fa per dire – per illudersi di finire di consumare, rigorosamente freddo, il piatto politico della vendetta dopo la rottamazione ch’egli ritiene di avere subìto due volte: la prima con la minaccia di non essere ricandidato alle elezioni del 2013, cui egli reagì rinunciando orgogliosamente al braccio di ferro per rivendicare il diritto alla deroga al regolamento del partito in materia di anzianità parlamentare, e la seconda con l’esclusione della partecipazione, pur promessagli da Renzi, al concorso politico, diciamo così, per la nomina a commissario europeo di quella che vorrebbe essere, ma non è, la politica estera dell’Unione. Una nomina che toccò invece alla giovane Federica Mogherini, già sistemata da Renzi alla Farnesina e trasferita a Bruxelles per lasciare il posto al conte Paolo Gentiloni Silverj: sì, proprio lui, l’attuale presidente del Consiglio.

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Naturalmente D’Alema, che di rosso non produce solo i vini, rifiuta questa lettura o interpretazione della guerra dichiarata a Renzi. La sua non sarebbe vendetta o ritorsione ma solo amore, magari viscerale, per la sinistra. Con la cui storia, la cui sensibilità, la cui coscienza – direi – il segretario del Pd avrebbe dimostrato di essere incompatibile.

Visto che all’ex e primo presidente del Consiglio post-comunista d’Italia piace molto inseguire e raccogliere consenso, tanto da avere dato questo nome al movimento in qualche modo concepito sabato scorso nell’incontro con i comitati referendari del no alla riforma costituzionale, mi piacerebbe che qualcuno promuovesse non dico fra tutti gli italiani, ma almeno fra gli iscritti al Pd un referendum per verificare se i più considerano la sua minacciata, e ormai assai probabile scissione, più un atto di amore per la sinistra o una vendetta, tremenda vendetta, al costo del suicidio lamentato da Bobo nella vignetta di Staino.

A sinistra non sarebbe d’altronde il primo incrocio fra le strade del suicidio e della vendetta. L’ultima, o più clamorosa, risale a poco più di vent’anni fa, quando i comunisti si vendicarono dell’orgoglio autonomistico di Bettino Craxi liquidandolo come un ladro e destinando la sinistra nel 1994 alla sconfitta nello scontro con l’esordiente Silvio BerlusconiPaolo Gentiloni Silverj. Che, per quanto indebolito e sotto pressione giudiziaria, è ancora lì, fra i piedi della sinistra, come un incubo, simile a quello che i compagni di D’Alema avvertono parlando e pensando a Renzi.

“Io sono il loro problema”, ha detto il segretario del Pd non più tardi di sabato scorso a Rimini, davanti ai sindaci ed altri amministratori locali del Pd, cercando di scherzarci sopra e persino di preoccuparsi per le condizioni psicologiche dei suoi avversari interni. Ma forse egli fa male a sottovalutarne il pericolo, come capitò a suo tempo anche a Craxi.


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