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Ecco come la politica economica è sballottata dalla società digitale

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Un secondo elemento di rottura (qui la prima parte dell’analisi) riguarda la produzione di servizi, che ha acquisito nella composizione del reddito un peso superiore al 70% del valore aggiunto complessivo globale (dati World Bank 2015).

Da un lato i servizi hanno accompagnato la nuova organizzazione della filiera di produzione industriale, dall’altro sono stati chiamati a dare risposte alle domande pressanti della nuova compagine sociale. Insieme al peso della conoscenza nell’industria che, incorporata negli intangible assets, è stimata intorno all’84% del patrimonio complessivo delle grandi imprese dell’indice S&P 500, i servizi delineano le condizioni attuali di un capitalismo post-fordista.

Le cause della crescita dei servizi sono riconducibili all’evoluzione del settore manifatturiero, ai mutamenti demografici, alle condizioni di incertezza che hanno prodotto crescenti esigenze di protezione e, non da ultimo, al processo di finanziarizzazione delle economie (A. Deaton, La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza, trad. it. Il Mulino, 2015). Ma il fattore scatenante è da ricercare ancora una volta nella nuova traiettoria di sviluppo aperta con la rivoluzione tecnologica digitale. Per il mondo industriale, infatti, la crescita dei servizi è imputabile in larga parte alla esternalizzazione della loro produzione, avvenuta grazie al supporto delle tecnologie informatiche che ne hanno consentito la delocalizzazione, riducendo i costi di produzione e al contempo alterando profondamente le caratteristiche della filiera produttiva. Tuttavia la crescita dei servizi risponde anche ai nuovi bisogni emersi dalla trasformazione dell’organizzazione sociale: tra gli esempi spiccano l’invecchiamento della popolazione e la destrutturazione del nucleo familiare allargato, che ha richiesto un crescente affidamento a fonti esterne per i servizi di cura, cui si aggiungono l’allungamento della vita media e le nuove domande per la valorizzazione del tempo libero.

Le istituzioni pubbliche hanno avuto storicamente un ruolo centrale per assorbire gli shock del cambiamento (D. Acemoglu e J. Robinson, Perché le nazioni falliscono, trad. it. Il Saggiatore, 2013 e Id., The rise and Decline of General Laws of Capitalism, «Journal of Economic Perspectives», vol. XXIX, n. 1, 2015, pp. 3-28), ma quelle di fine Novecento stentano ad adeguarsi. La crisi fiscale dello Stato, in senso lato, indebolisce la capacità della risposta pubblica, mentre la politica di privatizzazioni che ne è conseguita favorisce la tendenza dei governi a delegare al mercato il soddisfacimento di bisogni collettivi, tra i quali rischiano di iscriversi servizi essenziali per la crescita di lungo periodo, quali l’istruzione, ma anche, in molti Paesi, la sanità, la previdenza, la ricerca di base; in altri termini l’insieme di quei servizi che Michael Walzer (Sfere di giustizia, trad. it. Laterza, 2008) definisce beni sociali e che sono determinanti per la crescita.

La situazione è resa più difficile dal perdurare della crisi economica, che aumenta la domanda di servizi per la protezione dal rischio, ma indebolisce la capacità dello Stato di offrire servizi pubblici ai cittadini e contribuisce a frammentare la rappresentanza sociale. In questo contesto, infatti, la popolazione abbiente costruisce la propria enclave di servizi, apparentemente basata su criteri di mercato, in realtà prodotti come beni di lusso per una élite sempre più ristretta, mentre la maggior parte della popolazione è depauperata dei servizi di cittadinanza essenziali. Per comprendere a fondo l’impatto devastante dell’estensione delle leggi del mercato oltre l’ambito dei rapporti commerciali e la loro forza nello spazzare via comportamenti e legami sociali di tipo solidaristico, resta fondante l’analisi storica di Karl Polanyi (La grande trasformazione, 1944, trad. it. Einaudi, 2000), ma numerosi esempi attuali si trovano nei contributi di Michael Sandel (What Money Can’t Buy, Farrar, Straus and Giroux, 2012) e Walzer (Sfere di giustizia, cit.).

La società dei servizi e della conoscenza digitale è dunque il punto da cui ripartire, anche per l’elaborazione teorica. Poiché l’esaurirsi del modello tradizionale industriale lascia un vuoto di interpretazione e di strumenti di intervento nella politica economica. Lo spazio, reso vuoto, di partecipazione e crescita, rende urgente la necessità di ricostruire un tessuto connettivo sociale ed economico, indispensabile anche perché si creino le condizioni per riattivare una crescita diffusa, il cui indebolimento contribuisce al malessere sociale e al pericolo di derive autoritarie. La risposta ai bisogni collettivi assume un ruolo centrale. In questa chiave, cresce il richiamo alla definizione di beni collettivi e beni pubblici comuni, secondo profili che tuttavia, per essere riconosciuti e diventare egemoni, richiedono la visione di una leadership politica, l’educazione civica dei cittadini e un supporto teorico che aiuti a interpretare e governare il cambiamento.

Per diversi decenni il pendolo della politica economica nei Paesi occidentali è oscillato tra due poli: da un lato verso la redistribuzione del reddito prodotto e una relativa condivisione dei rischi sotto l’egida della protezione sociale dello Stato; dall’altro, verso una crescente soggezione delle istituzioni e delle norme alle leggi del mercato, via via globalizzato. Si è verificato un ribilanciamento continuo, con diversa intensità nei diversi periodi e regioni del pianeta, per lo più in corrispondenza con le maggioranze politiche prevalenti. Ma è giunto il momento di riconoscere che le due istituzioni che hanno svolto un ruolo centrale in quel sistema, Stato e mercato, non sono più in grado di sintetizzare le funzioni del nuovo mondo: la trasformazione di inizio millennio ha reso obsoleta questa dinamica. Si devono trovare soluzioni diverse, mentre cresce l’urgenza di riconsiderare l’offerta di beni collettivi e di interesse generale.

(Seconda parte di un’analisi pubblicata sulla rivista Il Mulino. Qui si può leggere la prima)

Valeria Termini è professore ordinario di Economia politica nell’Università di RomaTre, commissario nell’Autorità per l’Energia e vicepresidente del Coordinamento europeo dei regolatori.

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