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Perché le intese sulla Siria tra Turchia e Russia sono tattiche e non strategiche

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L’attenzione mondiale è polarizzata sul presunto riposizionamento geopolitico della Turchia dall’Europa all’Eurasia e dagli Usa alla Russia. Gli accordi trilaterali di Mosca per la tregua in Siria, fra la Russia, la Turchia e l’Iran, che ha però mantenuto una posizione più defilata, aprono la strada a un vero e proprio negoziato di pace, che inizierà in Kazakhstan a metà gennaio. La scelta del Kazakhstan è dovuta agli ottimi rapporti che il Paese ha sia con Mosca che con Ankara. Il suo presidente, Nazarbayev, aveva mediato il riavvicinamento fra Russia e Turchia dopo l’abbattimento del Sukoi-24 russo che aveva violato lo spazio aereo turco.

Il Paese è poi centrale nella Comunità economica eurasiatica, che fa capo alla Russia e che la Turchia sempre più frequentemente contrappone alla decadente UE. Lo fa negli ultimi anni, da quando cioè sono state ridimensionate le fantasie dello “spazio turco”, esteso dall’Adriatico alla muraglia cinese, anticipate nel 1990 dal presidente turco Turgut Ozal. L’influenza su tale spazio eccede le risorse della Turchia. Più modestamente, Ankara si accontenta oggi di divenire membro della SCO (Shanghai Cooperation Organization, co-presieduta da Mosca e Pechino) e di trarre vantaggio della nuova “Via della Seta”.

Di Eurasia si sta parlando molto in Turchia. Il nuovo ponte di Istanbul e il tunnel che collegherà la città con la penisola anatolica sono stati chiamati “Eurasia”. Tra i consiglieri di Erdogan figurano molti eurasisti, seguaci di Alexander Dugin, direttore del centro di geopolitica della Duma russa e fautore di un’alleanza fra Mosca e Ankara. Significa che la Turchia stia abbandonando l’Occidente? Ho molti dubbi in proposito, malgrado la retorica del presidente turco, che accusa gli Usa di aver appoggiato il tentato golpe del 15 luglio 2016 e i terroristi curdi dell’YPG siriano legato al PKK, e che minaccia di vietare l’uso da parte dell’aeronautica Usa della strategica base di Incirlik per le sue azioni contro l’ISIS.

L’attuazione di tale minaccia sarebbe una ritorsione per il mancato appoggio degli aerei americani alle forze turche e dei loro alleati siriani dell’Esercito della Siria Libera (SFA) nell’attacco ad al-Bab, la “porta della Siria”, situata a una trentina di miglia a Nord di Aleppo. Il Pentagono ha sostenuto che non ha appoggiato la Turchia perché la prosecuzione della sua operazione “Scudo dell’Eufrate” in Siria oltre una decina di chilometri a sud della frontiera turca sarebbe diretta non contro l’ISIS, ma contro le Forze Democratiche Siriane (SDF), in cui le unità curde dell’YPG – le migliori fanterie di cui dispone la coalizione a guida americana – sono prevalenti. Ankara sostiene che siano terroristi per i loro legami con il PKK. A parer mio, le intese sulla Siria fra la Russia e la Turchia sarebbero tattiche e contingenti, non strategiche e permanenti. La riconciliazione con la Russia, dopo l’abbattimento del Sukoi-24 nel novembre 2015, consistono in un compromesso. Ankara ha riconosciuto il fallimento della sua politica in Siria, rinunciando all’immediata destituzione di Assad.

La Russia ottiene il riconoscimento formale del suo ruolo centrale nella crisi siriana. Putin è stato certamente soddisfatto di aver emarginato gli Usa, che in realtà si erano marginalizzati da soli con la disastrosa politica di Obama in Medio Oriente. Il principale successo della diplomazia di Mosca è consistito nell’aver mediato fra gli interessi contrapposti che la Turchia e l’Iran hanno in Siria. La prima ha verosimilmente ottenuto mano libera per combattere i curdi siriani. Il secondo, la permanenza di Assad al potere negli anni del periodo di transizione e il fatto che il suo successore dovrebbe essere sempre un esponente alawita. Si è poi garantita la linea di rifornimento che, attraverso l’Iraq, consente a Teheran di collegarsi con l’Hezbollah libanese. Tutti sono in attesa di vedere che decisioni assumerà Trump. Una pace stabile in Siria è impraticabile senza gli Usa. Ogni previsione è difficile.

Quando, durante la campagna elettorale, Donald Trump, affermò che avrebbe vietato l’immigrazione di musulmani negli Usa, Erdogan reagì ordinando che il nome Trump fosse cancellato dal grattacielo costruito a Istanbul dal magnate americano. Poi fece un dietro-front completo, affermando che con Trump i rapporti fra la Turchia e gli Usa sarebbero migliorati. Verosimilmente lo ha fatto su sollecitazione russa oppure perché Trump e i taluni dei suoi più stretti consiglieri (il consigliere alla sicurezza nazionale, Flynn e il capo della CIA, Pompeo) hanno dichiarato che l’Iran è il nemico numero uno degli Usa.

Tornando ai rapporti fra la Turchia e la Russia, vi è da notare che l’accordo può tenere, limitatamente alla Siria. Lascia però irrisolti i numerosi altri contenziosi esistenti fra i due Paesi. Non crea i presupposti per un riallineamento geopolitico della Turchia, che metterebbe in crisi la NATO e, in una certa misura, anche l’UE. Per quanto riguarda la Turchia, le ragioni sono sia soggettive che oggettive. Le prime consistono non solo nel fatto che l’opinione pubblica turca considera la Russia il nemico tradizionale, che ha contribuito a distruggere l’impero ottomano, ma anche perché molti partiti politici non vogliono abbandonare l’Europa e si opporrebbero a un distacco turco dall’Occidente. Le ragioni oggettive consistono nei legami economici con l’UE (verso cui è diretto il 46% dell’export turco e che fornisce la massa degli IDE diretti in Turchia), uniti alla crisi economica e monetaria turca del 2016 (meno 2% del PIL e perdita del 20% del valore della lira rispetto al dollaro, con un debito estero turco in $ di oltre 200 miliardi). Inoltre, solo l’alleanza con l’Occidente permette alla Turchia di avere una certa forza negoziale nei confronti di Mosca. Ne diverrebbe altrimenti uno junior partner. In sostanza, la Russia e l’Eurasia non costituiscono per Ankara alternative realistiche agli Usa e all’Ue. Almeno nel breve-medio termine, non si verificherò quindi un terremoto geopolitico in Medio Oriente.

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