Matteo Renzi ha accettato la sfida di Massimo D’Alema, pur non polemizzando direttamente con lui. Alla minaccia dalemiana della scissione per arrestare la corsa alle urne, e dare il tempo agli avversari interni di rovesciarlo prima con un congresso, il segretario del Pd ha risposto allineando il partito alla richiesta dei grillini e dei leghisti di fissare per il 27 febbraio l’approdo del problema nell’aula di Montecitorio. Dove si tenterà un intervento che, cercando di omogeneizzare o armonizzare, come chiede il capo dello Stato, le due leggi cucite nella sartoria della Consulta per eleggere la Camera e il Senato, potrebbe avvicinarci più concretamente al voto.
Se poi l’omogeneizzazione o armonizzazione delle due leggi non si rivelasse possibile, e il presidente del Consiglio si dimettesse d’accordo con Renzi, al presidente della Repubblica rimarrebbero ben poche carte in mano da giocare per mantenere in vita con la respirazione artificiale una legislatura finita il 4 dicembre scorso, con la bocciatura della riforma costituzionale. Che ne era diventata il simbolo, anche se i fautori del no alle elezioni fingono ora di non averlo capito, o di non essersene accorti, magari pensando –come proprio D’Alema andava sostenendo nella campagna referendaria- che nell’anno residuo della legislatura fosse possibile addirittura allestire, con la necessaria procedura del doppio passaggio parlamentare, un’altra riforma costituzionale, “di pochi articoli”. Incredibile, ma vero.
Ora davanti al più ostinato degli avversari interni di Renzi c’è solo la prospettiva di bloccare la corsa alle urne con le carte bollate minacciate dal suo compagno di partito Michele Emiliano, governatore della Puglia. Il quale spera che qualche collega in toga non so di quale tribunale civile della Repubblica possa destituire o sospendere il segretario del Pd, o comunque obbligarlo a invertire i tempi del percorso politico: prima il congresso e poi le elezioni.
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Ormai alla magistratura in Italia manca solo questo: il potere praticamente di convocare o sconvocare un congresso di partito. Segnali in questa direzione, d’altronde, già sono arrivati con le risse esplose, per esempio, nel partitino socialista di Riccardo Nencini. E potrebbero ancora venirne se è vero, per esempio, che Umberto Bossi è talmente stanco e preoccupato di Matteo Salvini che vorrebbe in qualche modo obbligarlo per via giudiziaria ad un congresso per arrestarne la corsa alle elezioni, ma soprattutto per ridurre le distanze che il segretario del Carroccio ha preso da Silvio Berlusconi.
Non è un caso, d’altronde, che la via giudiziaria alla soluzione dei conflitti politici sia stata prospettata e venga perseguita da uno come Michele Emiliano, che è rimasto magistrato, mettendosi solo in aspettativa, pur facendo ormai da tempo il politico: prima sindaco di Bari, poi presidente della Puglia e segretario regionale del Pd, se non mi è scappato qualche altro passaggio politico.
Quello di Emiliano è un curriculum che ha fatto sobbalzare sulla sedia un vecchio dirigente comunista come Emanuele Macaluso, che gliel’ho appena rinfacciato opponendogli la memoria di un compagno siciliano che negli anni Cinquanta, del secolo purtroppo trascorso, si dimise dalla magistratura per fare il funzionario del Pci e diventarne poi parlamentare. Si chiamava –e spero si chiami ancora, cioè spero che viva- Emanuele Tuccari. Emanuele come l’amico ed estimatore Macaluso.
Il magistrato e politico Michele Emiliano ha tuttavia dato un dispiacere a D’Alema, prendendone le distanze nel timore di rimanerne danneggiato nella corsa alla segreteria del partito alla quale si è iscritto da solo. In una intervista ad un giornale non casuale, l’Unità, il governatore pugliese ha infatti accusato D’Alema di essere “come Renzi” e precisato quindi di “non correre per lui”. Gli è capitato evidentemente solo l’incidente di correre “con lui” contro il segretario in carica.
Un altro, nel Pd, che ha qualche problema di compagnia con D’Alema è Pier Luigi Bersani, l’ex segretario del partito. Che ha coniato questa formula per mettersi alla finestra e vedere che fine potrà avere lo scontro in corso: “Non minaccio nulla e non garantisco nessuno”. I soliti maliziosi aggiungono che qualche bersaniano si sia già informato su quanti posti blindati di capilista Renzi sia disposto a concedere alle minoranze, quando verrà il momento di definire le candidature, anche se l’ex segretario dei capilista è stanco, dopo averne scelti tanti nella sua esperienza alla guida del partito, e vorrebbe ora che se ne abbandonasse la pratica per tornare ai collegi uninominali. Ma ciò comporterebbe una riforma dai tempi non brevi.
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Le resistenze alle elezioni anticipate non sono comunque di carattere solo politico. Ve ne sono di carattere quasi ideologico e/o culturale. Esse provengono da editorialisti e analisti, alcuni dei quali sono rimasti orfani di simpatie o militanze politiche e si considerano ormai liberi da vincoli di parte o da simpatie.
E’ il caso del professore Alessandro Campi, che ha appena scritto, preoccupato, sul Messaggero: “Elezioni subito significa più realisticamente impegnare i cittadini in una nuova campagna elettorale poco dopo quella assai lacerante per il referendum sulla riforma costituzionale”. Come se non stessimo già in campagna elettorale e il problema non fosse solo quello di decidere quanto farla durare: sei mesi, nove mesi, un anno. Se basterà e non verrà a qualcuno l’idea di fare guerra a San Marino e usare l’ultimo comma dell’articolo 60 della Costituzione per prorogare la legislatura. E mettere ancora meglio in salvo i vitalizi dei parlamentari di prima nomina, a rischio sino all’autunno prossimo: vitalizi ai quali Renzi ha irriso con un messaggio sul telefonino di un amico che, una volta tanto, gli avrà invidiato Beppe Grillo.