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Come procedono le baruffe nel Pd fra Matteo Renzi e le minoranze

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Una cosa sicuramente Matteo Renzi non riuscirà ad ottenere per il congresso anticipato del Partito Democratico che ha voluto mettere in pista nella riunione della direzione conclusasi con 107 voti a suo favore, 12 contrari e 5 astensioni. E la cui data sarà fissata di preciso dall’assemblea nazionale a fine settimana. Non riuscirà a portarvi le minoranza “col sorriso”, come egli ha detto pensando ad una festa della democrazia, che sta poi nel nome stesso del partito.
No. Ad eccezione di Gianni Cuperlo e compagni, d’altronde sempre distintisi per stile dagli altri, le minoranze andranno col viso torvo e minaccioso, a dir poco, ad un appuntamento che pure  avevano reclamato all’indomani della disfatta referendaria di Renzi sulla riforma costituzionale. Ma poi, temendo di perdere, l’hanno contestato quando il segretario lo ha concesso, sicuro di poterlo vincere. Qualcuno, magari, farà davvero la scissione, alla quale del resto si sta preparando da tempo. Ma a questo punto, come ha detto non a torto Renzi, sarà una scissione “senza alibi”. Sarà solo il rifiuto di rispettare le regole e il nome stesso del partito.
Qualcosa forse il segretario del Pd dovrà comunque perdere per strada sulla strada del congresso. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, per esempio, non farà sicuramente la scissione, ma è intervenuto alla direzione per prendere le distanze dall’amico Matteo e proporre, come mediazione con le minoranze, il ricorso ad un simil-congresso: una conferenza programmatica, senza elezione dei dirigenti. Ma va detto che al momento del voto, sempre in direzione, il guardasigilli ha scoperto di avere altro da fare e non è risultato né fra i 12 contrari né fra i cinque astenuti. Nessuno, almeno, lo ha visto votare personalmente. Si vedrà cosa farà fra pochi giorni, all’assemblea nazionale.
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Fra i tentativi ai quali sono ricorse le minoranze per evitare quella che Pier Luigi Bersani, in un intervento alla Maurizio Crozza, ha sprezzantemente definito “una cosa cotta e mangiata” e un appuntamento che mette “troppa ansia”, il più sottile e rischioso è stato quello di inserire in un documento presentato all’ultimo momento per chiedere il congresso in autunno un passaggio di conferma della fiducia al governo presieduto da Paolo Gentiloni. Che era peraltro presente in direzione, accanto al segretario.
La logica di quel passaggio era questa: provate a votare contro la conferma della fiducia a Gentiloni. Oppure: elezioni anticipate significano sfiducia al governo. Ma, allertata da Piero Fassino, la maggioranza non è caduta nel trabocchetto. Essa si è uniformata ai regolamenti parlamentari per considerare preclusa la votazione del documento delle minoranze dopo l’approvazione dell’ordine del giorno per l’avvio delle procedure del congresso anticipato.
Impietosamente, alla fine della riunione, il solito Roberto Giachetti, vice presidente della Camera, quello che un’altra volta gridò a Roberto Speranza, candidato bersaniano alla segreteria, che aveva “la faccia come il culo”, ha rinfacciato alle minoranze le distanze prese dal governo Gentiloni alla sua formazione. In effetti, esse annunciarono, anzi ammonirono il governo a guadagnarsi giorno per giorno, provvedimento per provvedimento l’appoggio del partito. Peggio del famoso governo del democristiano Giuseppe Pella del 1953, voluto dall’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi e freddamente accolto dalla Dc, dilaniata sulla successione ad Alcide De Gasperi, come “amico”. Durò infatti solo 5 mesi.

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A favore delle minoranze e delle sue resistenze al congresso anticipato, interpretato come premessa di elezioni anch’esse anticipate, anche se Renzi ha tenuto a separare i due problemi ricordando che sulle urne potrà e dovrà decidere solo il capo dello Stato, non è valso neppure un appello lanciato alla vigilia della direzione del Pd da Romano Prodi. Il quale è convinto, al pari di Giorgio Napolitano, che in un Paese normale, anzi civile, si debba votare solo alla scadenza ordinaria della legislatura: nel nostro caso, fra un anno.
Eppure Prodi non è un sosia ma lo stesso professore che nel 1998, caduto in Parlamento con il suo primo governo – quello dell’Ulivo – per mano di Fausto Bertinotti, reclamò a gran voce le elezioni anticipate, negategli invece dal segretario del Pds-ex Pci Massimo D’Alema. Che preferì prenderne il posto cambiando maggioranza parlamentare, cioè sostituendo Bertinotti con Francesco Cossiga.
Si tratta infine dello stesso Prodi che dieci anni dopo, nel 2008, nuovamente caduto precocemente col suo secondo governo, della cosiddetta “Unione”, quella volta per mano dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, dimessosi dopo che gli avevano arrestato la moglie, presidente del Consiglio regionale della Campania, si trascinò appresso nel precipizio la legislatura. E furono elezioni anticipate. Ah, la memoria corta anche dei professori.
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