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Israele, Stati Uniti e Onu. Cosa sta succedendo?

Di Johanna Arbib Perugia

Israele è forte e sorride felice. In trent’anni, il piccolo Stato ebraico ha compiuto passi da gigante: il suo Pil è aumentato del 900%; la pressione fiscale è scesa dal 45% al 32%; gli aiuti americani sono passati dal 10% all’1% del Pil; le esportazioni sono aumentate dell’860%. Nonostante le guerre e il terrorismo, i tassi di mortalità in Israele sono i secondi più bassi dell’Ocse. L’aspettativa di vita di 82 anni è la più alta di tutta l’Asia occidentale. Israele continua a essere un polo di attrazione per migliaia di persone che, ogni anno, lo scelgono come Paese d’adozione. Circondato da Hamas e dall’Isis a sud e da Hezbollah a nord, Israele non ha nemici esistenziali in grado di mettere in ginocchio il Paese. Eppure, c’è un nemico invisibile che rischia di colpire la democrazia israeliana come mai prima: la delegittimazione. Al Consiglio di sicurezza dell’Onu, i Paesi più importanti del mondo hanno inferto un duro colpo al Paese, approvando una risoluzione che giudica illegale la sua presenza nelle terre conquistate nella guerra (non voluta, ma subìta) del 1967.

Gli Stati Uniti, per la prima volta in quarant’anni, hanno deciso di non proteggere Israele con il veto. La risoluzione del Consiglio, però, non riguarda solo gli insediamenti, ma la città vecchia di Gerusalemme. I Paesi europei si sono inoltre quasi tutti astenuti in un’altra recente risoluzione dell’Unesco, che ha cancellato 4mila anni di storia ebraica (e quindi cristiana) di Gerusalemme. Il boicottaggio di Israele avanza nelle università, nelle catene commerciali, nel mondo della cultura; i grandi media mostrano ormai quasi tutti un forte pregiudizio antisraeliano. A Parigi, tempo fa, 70 Paesi si sono riuniti per orchestrare un tribunale dell’opinione pubblica internazionale che addossasse su Israele le colpe della situazione in Medio Oriente.

Per molti anni, le democrazie occidentali hanno considerato Israele come un tesoro nato dal loro seno, come espressione dei valori più alti della cultura occidentale, che Israele ha sempre incarnato. Adesso, a causa della delegittimazione, sembra come se l’occidente avesse deciso di liberarsi di Israele, come se pensasse di poterne fare a meno, quando è invece il suo unico alleato in una mezzaluna che va da Marrakech a Islamabad. Boicottando e criticando Israele, si comincia a giustificare un ulteriore passaggio, in cui potrebbe essere giusto farlo scomparire. È questo il significato della delegittimazione. Per sete di riserve energetiche, per cinico calcolo politico, per demagogia, i Paesi civili hanno come accettato che Israele venga spinto ai margini del consorzio internazionale.

La questione degli insediamenti è soltanto l’ultima scusa per attaccare il buon nome e le ragioni di Israele. Secondo la legge internazionale, gli insediamenti sono, prima di tutto, legali: Israele è tenuto da ogni norma internazionale ad amministrare i territori frutto della Guerra dei sei giorni. Inoltre, il conflitto israelo-palestinese esisteva già decenni prima che nascesse il primo insediamento. Infine, i confini del futuro Stato palestinese, che non è ancora nato a causa della decisione del mondo arabo-islamico di rigettare l’esistenza di uno Stato ebraico nella regione, devono essere decisi al tavolo del negoziato, non negli organismi internazionali come stanno facendo i palestinesi. Era questo lo spirito di Oslo. Anziché incoraggiare i palestinesi a negoziare con Israele, questa pressione non farà che rafforzare la loro convinzione che i colloqui con Israele sono inutili. È importante porre i governi democratici e le opinioni pubbliche, in primo luogo quelli dell’Europa, di fronte alle loro responsabilità, nella consapevolezza che Israele è la nostra frontiera. Israele è una democrazia e lo dimostra ogni giorno della sua esistenza. Dalla corte suprema al Parlamento, i valori di diritto e libertà vengono continuamente difesi.

Dalla sua rinascita, 69 anni fa, non ha mai smesso di cercare la pace con i suoi vicini ed è disposta a farlo anche in futuro tramite negoziati diretti e con un interlocutore che accetti la sua esistenza come Stato ebraico e democratico. Mi piace pensare, come espresso più volte dal grande rabbino Rav Jonathan Sacks, “è proprio da qui, da questa antica capitale, la culla della civiltà, da Gerusalemme, proiettata verso il futuro, che verrà sigillata, una pace giusta, perché Gerusalemme, la città del shalom, della pace che è contenuta nel suo nome, non è il problema ma la soluzione”. In conclusione, il rapporto con Gerusalemme e con la Terra d’Israele è parte integrante della spiritualità e dell’anima ebraica. Chi nega questo legame commette non solo un errore storico, ma intacca le radici stesse dell’ebraismo.

di Johanna Arbib Perugia – PRESIDENTE JERUSALEM FOUNDATION

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