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Ecco come gli analisti giudicano il programma di Trump su petrolio, gas e rinnovabili

Trump, Dollaro, Usa, Obamacare, G20

La cura economica Donald Trump, i cui piatti forti sono deregulation e ordini esecutivi che fanno partire a razzo progetti in stallo da mesi, sembra molto gradita ai gruppi dell’energia americani; ovviamente, quelli che fondano i loro affari sulle fonti tradizionali. Il presidente Repubblicano è pronto a sostenere in ogni modo un’industria che, a suo dire, vale 50.000 miliardi di dollari. Una cifra astronomica e tutta da confermare, scrive sul Financial Times Nick Butler, presidente del Kings Policy Institute di Londra, visto che l’anno scorso il prodotto interno loro americano è stato di 18.000 miliardi di dollari, ma, numeri a parte, la politica pro-idrocarburi di Trump è già delineata: dopo otto anni di regole e restrizioni con cui il predecessore Barack Obama ha cercato di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, adesso Washington non mette più paletti alle aziende che vogliono continuare a puntare su petrolio, gas e carbone.

Una manna (gli americani direbbero “bonanza”) per l’industria, perché tanta offerta fa abbassare i prezzi dell’energia e quindi i costi di fabbricazione negli Stati Uniti, con potenziale aumento dell’output e dell’occupazione nella manifattura. E poi il surplus di energia può essere esportato, anche qui con beneficio per i produttori americani. Ma sembra altrettanto ovvio che, se i mercati internazionali saranno inondati di petrolio e gas, si rischia di mandare a picco il prezzo del greggio, che ha faticato a tornare a livelli (50-55 dollari al barile) che permettono una striminzita redditività agli operatori del settore, e anche di scatenare un braccio di ferro con l’Arabia Saudita che dopo anni si è rassegnata ad approvare il taglio dell’output per l’Opec pur di rivitalizzare i prezzi della risorsa che sorregge tutta la sua economia.

TUTTI I SI’ DEL PRESIDENTE

In circa un mese alla Casa Bianca Trump è riuscito a far riprendere i lavori di costruzione del Dakota Access Pipeline  e del Keystone XL, due importanti oleodotti già quasi pronti ma lasciati in stand-by da Obama (il Keystone XL da novembre 2015). Il Dakota Access Pipeline, che collega il greggio del North Dakota col golfo del Messico statunitense, è stato bloccato per le proteste sia degli ambientalisti sia dei nativi americani (Standing Rock Sioux Tribe) che vivono nel territorio, ma Trump ha concesso il via libera alle trivellazioni nel lago Ohae, che immette nel fiume Missouri e l’oleodotto dovrebbe cominciare a funzionare a maggio.

Il Keystone XL trasporta il petrolio dall’Alberta (Canada) alle raffinerie del Texas – petrolio convenzionale, non shale oil. Trump sta rinegoziando i termini dell’accordo col Canada e intanto ha scritto nei suoi ordini esecutivi che la parte americana dell’oledotto va realizzata con materiali made in Usa. Tanta velocità si deve anche alla semplificazione del processo di autorizzazione e della revisione dei criteri ambientali e di trasparenza per le aziende del petrolio e del gas.

IL SECONDO BOOM DELLO SHALE

La visione del Presidente è illustrata da un commento di Forbes, secondo cui i progetti dell’oil&gas sono garanzia di prosperità per l’America perché il petrolio è il bene più scambiato al mondo e sia la International Energy Agency che la Energy Information Administration americana prevedono che il mondo avrà bisogno di più, non meno, petrolio nei prossimi decenni. Inoltre gli oleodotti statunitensi sono pagati dal denaro di imprese private, non dai soldi dei contribuenti (al contrario di quanto accade con le rinnovabili, nota Forbes). Trump può con queste iniziative dare il sostegno a un secondo boom dello shale Usa e creare ricchezza e occupazione, mentre rende gli Stati Uniti indipendenti dalle importazioni di energia da paesi politicamente instabili. “Senza i 250 miliardi di dollari l’anno o più infusi nell’economia americana dall’industria dello shale nei primi sei anni dell’amministrazione Obama, gli Stati Uniti sarebbero rimasti in recessione”, conclude Forbes.

EFFETTI INDESIDERATI

Per Butler del Kings Policy Insitute le cose non stanno esattamente così. La Casa Bianca sembra dare ragione ai lobbysti del petrolio e del carbone e a potenti investitori come i fratelli Koch che hanno speso fiumi di soldi per convincere Washington a lasciarli lavorare, ma gli stessi gruppi dell’energia potrebbero realizzare presto che il sogno del laissez-faire è in realtà un incubo.

“L’offerta di energia negli Stati Uniti è già abbondante, mentre la domanda è piatta: più carbone, petrolio e gas shale grazie a regole più permissive non otterranno altro che far scendere i prezzi. Bene per l’industria manifatturiera Usa, che Trump vuole salvaguardare. L’industria dell’energia in sé invece non ne guadagna per niente: un’offerta più abbondante abbassa i prezzi e la profittabilità delle operazioni è messa in crisi”, scrive Butler.

I produttori Usa naturalmente possono risolvere guardando ai mercati esteri, soprattutto per quel che riguarda carbone e gas naturale. Gli Stati Uniti già esportano gas: le prime forniture di gas naturale liquefatto (LNG) dagli stabilimenti Sabine Pass al confine tra Texas e Louisiana sono già partite verso i mercati internazionali l’anno scorso e ora gli Usa riforniscono una dozzina di mercati del gas nel mondo. Altri impianti per l’LNG verranno realizzati e nuovo shale gas verrà prodotto, aumentando l’offerta su scala globale: secondo alcune stime gli Usa potrebbero arrivare a esportare 3 miliardi di piedi cubi di gas naturale quest’anno. “Il mondo non ne ha bisogno. L’offerta di petrolio, gas e carbone è superiore alla domanda”, dice Butler. “Il prezzo del petrolio è ancora vulnerabile e tocca i 55 dollari solo grazie ai tagli decisi dall’Opec”.

L’OPEC SAPRA’ GESTIRE IL SURPLUS?

Il ministro del petrolio saudita Sheikh Khalid al-Falih ha dichiarato alla BBC il suo pieno supporto alle politiche Usa pro-idrocarburi: Trump continuerà a perseguire comunque l’uso di un mix di fonti, anche rinnovabili, e resterà fedele all’amicizia con gli alleati arabi, ha detto. Tuttavia il petrolio degli arabi ha costi di produzione molto più alti di quello prodotto dagli americani e lo shale potrebbe agire da forza disruptive e far fallire fornitori “convenzionali” – una sorta di “vendetta” Usa contro le politiche di Riad che si è ostinata per anni a non ritoccare l’output, convinta che inondare i mercati di petrolio e far crollare i prezzi avrebbe mandato in bancarotta i concorrenti americani. Invece è successo il contrario – l’Arabia Saudita è costretta a cercare fonti di ricavo “non convenzionali” per la sua economia mentre gli americani continuano a pompare: il numero totale di pozzi attivi negli Usa (oil & gas) è salito a 741, secondo Baker Hughes, 200 in più rispetto a un anno fa.

VERSO LO SHOCK?

Il prezzo del petrolio risponde in maniera altalenante. I dati sui pozzi attivi che aumentano fanno scendere la quotazione del greggio, poi arriva la nota di analisi di Goldman Sachs che dice che l’Opec riuscirà ad assorbire il surplus e le giacenze americane e il prezzo risale. “Le scorte e le importazioni Usa scenderanno grazie ai tagli dell’Opec e di altri paesi”, ha scritto Goldman. Carl Larry, director of oil and gas di Frost & Sullivan, pensa addirittura che l’Opec potrebbe tagliare ulteriormente la produzione per contrastare gli effetti del surplus americano e difendere il prezzo del greggio.

Nell’equazione va inserito un altro elemento, riporta Platts: Trump e il Congresso stanno lavorando sul cosiddetto Border Tax Adjustment e il Congresso sarebbe orientato a ridurre l’imposta sul reddito per le imprese, tassare le importazioni del 20%, e proteggere invece le esportazioni. L’analista di Barclays Paul Cheng ha dichiarato che questa proposta, se attuata, sarebbe “una delle leggi di maggior peso per i mercati dell’energia statunitense e mondiali con un potenziale impatto di vasta portata sui consumatori Usa, l’equilibrio globale domanda/offerta e gli scambi globali di petrolio e prodotti della raffinazione”. Per Goldman Sachs una legge del genere darebbe un ulteriore incremento alla produzione di shale che risulterebbe in un aumento del prezzo del petrolio Usa e un crollo del prezzo del petrolio non-Usa, con conseguente shock generale.

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