Tra giovedì e venerdì gli Stati Uniti hanno lanciato due serie di raid in Yemen contro postazioni della filiale locale di al Qaeda (conosciuta con l’acronimo Aqap e che viene considerata la più pericolosa perché da lì vengono i terroristi che compiono attacchi all’estero, come quelli che colpirono Charlie Hebdo, per scelta strategica della guida Ayman al Zawahiri). Giovedì ci sono stati oltre venti bombardamenti operati da droni e aerei americani, seguiti la notte successiva da un’altra decina di attacchi condotti stavolta da elicotteri Apache (che secondo quanto riportato dalla Reuters hanno accompagnato anche operazioni di terra dei Navy Seals). L’area colpita è sempre quella centro meridionale, che – anche grazie alla guerra civile in corso – è uscita dal controllo governativo per entrare sotto quello qaedista. Sarebbero operazioni militari quasi di routine, viste già ai tempi dell’amministrazione Obama (quando lo Yemen era diventato il terreno di caccia dei droni americani ai leader qaedisti, non senza effetti collaterali a danno dei civili). Ma i fatti si portano dietro una serie di considerazioni che hanno spessore politico rilevante.
I RAPPORTI WASHINGTON-SANAA
A cominciare dai rapporti Washington-Sanaa. A fine gennaio gli americani avevano lanciato un raid su un compoud qaedista i cui effetti furono la morte di una quindicina di militanti, quella di Ryan Owens, un soldato delle forze speciali, e di 23 civili, di cui dieci bambini. Fu il primo blitz armato deciso dal presidente Donald Trump e ha scatenato una fitta serie di polemiche che continuano ancora in questi giorni, dopo gli onori offerti durante il discorso al Congresso di martedì alla vedova del soldato ucciso, commiato che però ancora non si è portato dietro una presa di responsabilità completa per quanto accaduto da parte della Casa Bianca. Il raid secondo le informazioni ufficiali è stato un “grande successo” perché ha permesso di raccogliere materiale sui prossimi attentati di al Qaeda, ma quando si parla della morte del Seal le colpe ricadono a turno sui generali e su una pianificazione precedente (ossia ai tempi di Obama) della missione; nel frattempo i giornali escono con notizie secondo cui i dati raccolti non sono per niente significativi. Il governo yemenita ha seguito inizialmente una linea molto dura: ha ritenuto insostenibile che gli americani uccidessero civili in operazioni di cui non aveva ricevuto l’avviso, e per questo aveva deciso di revocare agli Stati Uniti il permesso di compiere certe attività militare (il permesso, vincolato da segnalazione preventiva, era stato accordato anni fa). Ora pare che Sanaa sia rientrata su una linea più vicina a quella di Washington, perché secondo le informazioni diffuse l’esercito yemenita ha partecipato alle azioni di questi giorni (non è chiaro come): è una cosa importante perché è impossibile pensare di combattere al Qaeda in Yemen, e i suoi effetti esterni, senza che il governo dello Yemen sia con te.
UN PIACERE AI SAUDITI
È possibile, e questo è il secondo aspetto interessante, che l’Arabia Saudita abbia mediato la situazione. Riad, insieme ad altri paesi arabi sunniti, è da mesi impantanata in un intervento militare a sostegno del presidente Abdu Rabbu Mansour Hadi che è stato costretto alla fuga dalla rivolta dei separatisti nordisti Houthi, un partito-milizia filo-sciita che riceve aiuti di vario genere dall’Iran. La campagna militare a guida saudita per sostenere il governo amico di Hadi ha anche lo scopo del contenimento proxy dell’espansionismo iraniano nel Golfo (va ricordato che Teheran ha i piedi ben piantati a Damasco, a Beirut e a Baghdad, e pensare che possa metterli anche a Sanaa ai principi del petrolio non piace affatto). Gli Stati Uniti di Trump hanno fatto una scelta di campo molto netta: a inizio febbraio hanno incoronato il principe ereditario Muhammed bin Nayef con un’importante medaglia al valore per la lotta al terrorismo (onorificenza consegnata personalmente durante una visita del capo della Cia), e lo hanno fatto intendo l’attività saudita sia sul fronte del contenimento delle minacce jihadiste dell’IS e di al Qaeda, sia per il contrasto agli Houthi, che seguono una narrativa anti-americanista stanca, frutto dell’indottrinamento iraniano, ma che non disdegnano di farsi minacciosi sulle rive del Persico lanciando razzi contro i battelli passanti (anche americani).
COMBATTER L’IRAN
Questo appoggio ai sauditi ha come contraltare il contrasto all’Iran, che con Barack Obama era stato riqualificato dal deal sul nucleare e che invece viene considerato una minaccia da entrambi i binari dell’amministrazione Trump, sia quelli più morbidi e razionali sia quelli più duri e aggressivi. Contenere l’Iran ha il valore di ricostruire i rapporti con i sauditi (ottimi investitori che col deal obamiano si erano sentiti traditi) e con gli israeliani: non è possibile mantenere in piedi entrambe le relazioni, e Trump ha scelto di buttare a mare quella creata da Obama. Il 27 febbraio è uscita sul Die Welt un’intervista ad Avigdor Lieberman, falco della Difesa israeliana che ha detto: “Per me la notizia più bella degli ultimi tempi è il fatto che gli Stati sunniti moderati abbiano compreso che il maggior pericolo per loro non è Israele o il sionismo, oppure gli ebrei, ma l’Iran” e più avanti ha aggiunto che “è tempo di dar vita ufficialmente a una coalizione, a un’unione di tutte le forze moderate del Vicino Oriente – non importa se si tratta di musulmani, ebrei o cristiani – contro il terrorismo” (intendendo al Qaeda, IS e Iran, proprio come Washington quando ha premiato bin Nayef). Questa coalizione evocata, che finora sembrerebbe improbabile visto che Israele non ha relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita, parte da lontano: per esempio, già a giugno del 2015 se ne poteva assaporare un aperitivo offerto in un incontro informale con la stampa al Council on Foreing Relations di Washington tra Dore Gold, consigliere per gli Esteri del governo israeliano, e figura molto vicina al primo ministro Benjamin Netanyahu, e l’ex generalissimo saudita Anwar Eshki; dietro al volto mediatico dei due, un gruppo di operativi avrebbe iniziato in quei giorni a mettere mano attivamente alla visione strategica comune che fu discussa coi giornalisti ospitati dal think tank. A quei tempi Obama aveva pessime relazioni con entrambi gli alleati, e quell’avvicinamento era un messaggio funzionale: invece ora è indubbio che Trump può fare da solvente, usando l’anti Iran-ismo come catalizzatore.
ALZARE IL COINVOLGIMENTO IN YEMEN
Ecco dunque che un annunciato aumento delle attività americane in Yemen assume il valore politico, al fianco dei sauditi e come vettore di contrasto all’Iran. Il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer ha detto al New York Times che si tratterà di un cambio di “filosofia più che di direttive”, ma i comandanti militari che gestiscono il quadrante yemenita (che da ultimo fa capo al CentCom) avranno mani più libere e procedure di intervento semplificate: ossia, le forze speciali e i bombardieri potranno uscire e entrare dal paese anche senza passare dallo Studio Ovale. Per lo Yemen, secondo il Washington Post, verrà applicata la stessa procedura affidati ai comandanti che hanno gestito la missione contro lo Stato islamico a Sirte, la roccaforte libica oggetto di una campagna aerea di diversi mesi a sostegno dei miliziani misuratini anti-IS alleati del governo onusiano. Secondo quanto spiegato a Foreign Policy dal generale Joseph Votel, comandante di CentCom, al Qaeda in Yemen è una minaccia enorme e sarebbe uno di quegli obiettivi primari contenuti nel piano che il capo del Pentagono James Mattis ha consegnato sul tavolo di Trump a inizio settimana. Il piano, di cui si sanno pochi dettagli, è frutto di un incarico diretto affidato a fine gennaio dal presidente ai suoi generali: Trump vuole “obliterare” l’IS e i vari gruppi terroristici, tra cui al Qaeda, in giro per il mondo, e per farlo è disposto a uno step up, sia a livello di impegno sul campo, sia a livello di alleggerimento delle procedure operative perché, dice Spicer, “si fida” delle conoscenze dei generali (nota dei critici: così poi può accusarli se qualcosa va storto come nel caso di Owens). Ma la lotta al terrorismo in Yemen diventa anche un test di politica estera per Trump.