Una certezza esiste: gli Stati Uniti, pure con l’elezione di Donald Trump, rimangono ancora la più importante potenza mondiale. Ma il loro modo di interpretare questo ruolo è cambiato e sta cambiando – per fattori interni ed esterni – tanto da far dubitare che continueranno ad essere, anche nei prossimi decenni, i leader globali. In poche parole, l’impero a stelle strisce durerà?
IL DIBATTITO
Attorno a questa domanda si è sviluppato il dibattito – che si è svolto ieri al Centro Studi Americani – organizzato da Leonardo/Finmeccanica e dalla rivista di geopolitica Limes. Risposte univoche – com’è normale che sia – non sono arrivate. Anzi, sono emerse due impostazioni. Da un lato c’è stato chi ha affermato che, al netto dei cambiamenti in atto, gli Usa non abdicheranno al loro ruolo di architrave della politica internazionale e, dall’altro, chi ha osservato invece che, volenti o nolenti, perderanno comunque progressivamente questa posizione di primazia.
IL GIUDIZIO DI MORETTI
Alla seconda corrente di pensiero si è iscritto l’amministratore delegato di Leonardo Mauro Moretti: “Con l’accelerazione della dinamica dei cicli tecnologici, la capacità di resistenza degli imperi si è inevitabilmente ridotta “, ha detto il manager, per il quale è il resto del mondo adesso a doversi abituare all’idea: “Questo conto gli americani l’hanno già fatto: sanno perfettamente di non essere più in grado di determinare i destini del mondo come avveniva in passato“. I motivi – ha aggiunto Moretti – sono molteplici e comprendono, innanzitutto, i trend demografici: “C’è una dinamica che è drasticamente a svantaggio degli Usa e dell’Europa“. E a vantaggio, invece, della Cina e, più in generale, dell’Asia: “Sarà un mondo bipolare – dominato da Stati Uniti e Cina – anche dal punto di vista culturale. Con una crescente polarizzazione che vedrà da un parte l’America e l’Europa e dall’altra la Cina e l’Asia“.
LE PAROLE DI FABBRI
“Gli Usa mantengono tutte le caratteristiche tipiche della potenza imperiale e, a mio avviso, rimarranno tali ancora per molti decenni“, ha commentato il giornalista di Limes Dario Fabbri. Che ha citato a mo’ di esempio il controllo dei mari ancora esercitato dalla Casa Bianca: “Sono prima di tutto una talassocrazia“. Un dato nient’affatto irrilevante considerato che il 60% del commercio mondiale si svolge ancora per via marittima. Ma c’è di più, ha spiegato ancora Fabbri. Un altro segnale è l’aumento esponenziale del deficit commerciale – passato dai 35 miliardi del 1991 ai 700 di oggi -, voluto “scientificamente per creare un rapporto di dipendenza tra gli Usa e i Paesi della sua costellazione“. In quest’ottica non sarebbe da prendere troppo sul serio la guerra dichiarata da Trump all’immigrazione: “La politica Usa è sempre stata questa: rifiutarla a parole, ma fare in modo che non si fermi“. Una scelta precisa, dovuta a una pluralità di ragioni, prima fra tutte la necessità di mantenere “sempre giovane la popolazione“.
L’ANALISI DI DASSU’
Qualcosa, però, con Barack Obama prima e Trump adesso sta cambiando. “E’ un impero riluttante“, ha osservato l’ex viceministro degli Esteri e direttore di Aspenia Marta Dassù: “Già durante l’amministrazione Obama erano ravvisabile questo atteggiamento, che con il nuovo presidente degli Stati Uniti è diventato molto più netto“. La vocazione imperiale, tuttavia, non è tramontata come ha sottolineato l’attuale viceministro della Farnesina Mario Giro: “Non credo che Trump voglia abdicare alle ambizioni imperiali Usa“. E’ cambiata però quantomeno la strategia, ora imperniata – secondo Giro – sull’incertezza: “Non ci sarà più una linea fissa, ma linee mobili dettate dal caso, dal contesto e dagli interlocutori. Il presidente americano è convinto che questa incertezza gioverà agli Usa. E’ un vero negoziatore che tiene coperte le sue carte“.
GLI USA SECONDO CARACCIOLO
Caratteristica che il direttore di Limes Lucio Caracciolo ha chiamato invece “imprevedibilità“: “E’ il dato fondamentale di questa presidenza. D’altronde, abbiamo un intelligence che in pratica nega documenti al presidente per paura che li passi ai russi“. Che tra il cosiddetto stato profondo americano e il nuovo inquilino della Casa Bianca non corra buon sangue, è un dato evidente ed enfatizzato dalla maggior parte degli osservatori, tra cui anche Fabbri: “Gli apparati temono che Trump renda gli Usa un paese come gli altri, non più imperiale. La politica estera degli Stati Uniti dei prossimi anni ballerà tra due posizioni: gli apparati da un lato e il presidente dall’altro“.
GLI AUSPICI DI LEONARDO
E l’Europa in tutto questo? Deve svegliarsi. E ripartire dalle sue certezze, che annoverano pure il ruolo fondamentale ricoperto da Berlino. “Se vogliamo ricostruire l’Europa, dobbiamo dire che la Germania è il leader: senza un centro aggregatore non sarà possibile ottenere questo risultato“, ha commentato l’amministratore delegato di Leonardo. Un obiettivo che l’Europa dovrà cercare di realizzare da sola, senza più poter aspettare che gli Stati Uniti colmino le sue lacune. Perché c’è un elemento fondamentale su cui tutti hanno più o meno concordato: la necessità che in questo quadro internazionale in profonda trasformazione il Vecchio Continente faccia, almeno in parte, da sé. “Per l’Europa Trump è un’opportunità per misurarsi con sfide con cui avrebbe comunque dovuto confrontarsi“, ha commentato Dassù.
LO SCENARIO DI LIMES
Un concetto reso ancora più esplicito da Caracciolo: “All’America dobbiamo molto, soprattutto l’Europa unita. Dopo la seconda guerra mondiale, è stata una scelta americana quella di mettere insieme una serie di paesi che avevano il comune obiettivo di difendersi dall’Unione Sovietica. Ora che, però, gli Usa si disinteresseranno relativamente dell’Europa spetta a noi: mamma e papà non ci sono più, dobbiamo trovare internamente le ragioni della nostra unità. Che deve fondarsi non sulla paura di qualcosa, ma sulla consapevolezza di avere interessi e una storia in comune“.
Gli Stati europei ci riusciranno? Il primo esame è in programma il 23 aprile con le presidenziali francesi. Che si svolgeranno a nemmeno un mese di distanza dalla cerimonia di Roma per il sessantesimo anniversario dell’Europa unita del prossimo 25 marzo.