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Perché nella prossima campagna elettorale possono arrivare bombe giudiziarie. Parla il prof. Petrillo

Petrillo

Il combinato disposto del finanziamento ormai solo privato della politica, del reato di traffico d’influenze illecite e della mancata regolamentazione dei gruppi di pressione diventerà una bomba nella prossima campagna elettorale“. Non usa mezzi termini il professore di Teorie e tecniche del Lobbyng della Luiss Pier Luigi Petrillo nel descrivere il quadro politico-giudiziario che rischia di configurarsi in occasione delle prossime elezioni politiche.

Dal primo gennaio scorso è stato abolito ufficialmente il finanziamento pubblico dei partiti, ma in Italia ancora non esiste una legge che disciplini i rapporti tra politica e portatori d’interesse. Nel frattempo, però, continuano a rincorrersi le inchieste giudiziarie – l’ultima è la vicenda Consip che ha portato all’arresto di Alfredo Romeo e all’indagine a carico di Luca Lotti e Tiziano Renzi – che si focalizzano sui rapporti spesso al limite tra politici, imprenditori e faccendieri veri o presunti. “Il governo deve agire con urgenza per scongiurare il rischio di implosione del sistema“, commenta Petrillo in questa conversazione con Formiche.net.

Professor Petrillo, perché è ipotizzabile lo scenario catastrofico da lei evocato?

Perché il finanziamento pubblico non c’è più, ma i partiti – per fare politica e per sostenersi, tanto più in campagna elettorale – hanno ancora, ovviamente, bisogno di risorse economiche. Che, da quest’anno, possono giungere solo dai privati. Il problema è l’assenza di una norma che regolamenti l’attività di lobbying: solo in questo modo potrà garantirsi la trasparenza e, al tempo stesso, definirsi in modo più stringente la fattispecie del reato di traffico di influenze illecite, al momento piuttosto vaga e difficile da dimostrare.

Cosa potrebbe accadere a suo avviso?

Se il quadro politico-normativo non cambierà, esiste la forte possibilità che la campagna elettorale sia consegnata nelle mani delle procure della Repubblica. Non per colpa loro, visto che di fronte a un’ipotesi di reato non possono che intervenire. Ma perché – in assenza di una regolamentazione del fenomeno lobbistico – l’unica norma che c’è è di natura penale.

Appunto il reato di traffico di influenze illecite. Cosa non la convince di questa fattispecie?

E’ una norma che va a colpire, di fatto, ogni forma di influenza genericamente illecita. Ma – nell’assenza di una definizione di cosa sia lecito – qualsiasi giudice può finire con l’interpretare come illecito qualunque atto. Ivi compreso il finanziamento di un partito. Negli ultimi anni, quasi sempre, chi è stato indagato per traffico d’influenze illecite ha visto archiviare l’ipotesi di reato a suo carico oppure trasformarla in millantato credito o corruzione. La fattispecie è già di per sé scritta in modo confuso. E la situazione peggiora perché non si capisce quale sia il confine tra lecito e illecito.

Qual è il rischio concreto che potrebbe verificarsi?

Poniamo che una grande azienda – attiva nel settore degli appalti pubblici – decida di dare un contributo per la campagna elettorale di un determinato partito politico, il quale poi vince le elezioni e va al governo. Ipotizziamo, inoltre, che quella stessa impresa successivamente si aggiudichi una commessa pubblica. Sono elementi che sconnessi tra loro non ci dicono molto, ma che potrebbero anche essere facilmente collegati. E portare ad accusare l’azienda in questione del reato di traffico d’influenze illecite. Come stiamo vedendo in questi giorni, non si tratta di un’ipotesi solo di scuola.

In questo contesto cosa occorrerebbe fare a suo avviso?

Ritengo che il governo debba intervenire con urgenza – e quindi anche con un decreto legge – su due questioni principali. Innanzitutto, modificare subito la legge sul finanziamento dei partiti e prevedere espressamente che ogni contributo dato alla politica dai privati – ogni singolo euro – sia tracciato e reso trasparente.

E l’altra questione qual è?

La definizione normativa di attività d’influenza lecita, invocata peraltro in più di un’occasione anche dalla Corte di Cassazione. Serve necessariamente una norma omogenea su tutto il territorio nazionale – e valida per tutti gli apparati dello Stato e degli enti territoriali – che dica che cos’è il lobbying.

Anche perché, in mancanza, si stanno moltiplicando le iniziative assunte da singole istituzioni pur in assenza di una regia unitaria. E’ così?

Si sta venendo a creare un quadro a dir poco schizofrenico. Cinque regioni – Toscana, Molise, Abruzzo, Lombardia e Calabria – hanno introdotto alcune regole, ognuna diversa dalle altre. Poi abbiamo il ministero dello Sviluppo economico che ha previsto un registro, così come ha fatto anche la Camera dei Deputati solo per l’attività lobbistica esercitata all’interno di Montecitorio. Un insieme farraginoso e frammentato di norme, che complica soltanto le cose.

Pure in questo caso ritiene che il governo debba intervenire con urgenza?

I crismi dell’urgenza ci sono tutti: l’emergenza è evidente. Ora c’è lo scandalo Romeo, ma solo qualche mese fa c’è stata la vicenda Guidi. E prima ancora altri casi. In pratica, le inchieste legate a questo sottobosco si alternano senza soluzione di continuità. Gli elementi di urgenza sono quindi legati alla realtà dei fatti, ma anche alla considerazione che in quarant’anni il Parlamento non è stato in grado di produrre alcuna norma sull’argomento.

Ma pensa che il governo interverrà? 

Dall’agenda politica non mi pare onestamente che si tratti di un tema considerato prioritario dal governo. E pensare che nel primo Def presentato da Matteo Renzi c’era scritto che avremmo avuto una legge sulle lobby entro tre mesi.

L’esistenza di una legge sulle lobby avrebbe cambiato in qualche modo, secondo lei, l’inchiesta Consip?

Con una legge ad hoc – comprensiva di una serie di obblighi in capo ai lobbisti – finalmente riusciremmo a distinguere chi fa lobbying e i faccendieri. Oggi, invece, è tutto confuso e ciò fa sì che in questo settore prevalga chi può vantare un rapporto di clientela o parentela con l’autorità politica, in virtù del quale quest’ultima tende ad ascoltare il cliente o il parente di turno e non il lobbista. E cioè colui che gli rappresenta legittimamente un interesse.

E cosa cambierebbe con una legge?

Indicare cosa possono e non possono fare i lobbisti e imporre al decisore pubblico di rendere trasparenti i suoi incontri con loro vuol dire tagliare automaticamente fuori una lunga serie di soggetti, che attualmente operano nell’ombra. E, soprattutto, significa consentire alla magistratura di andare a colpire davvero le sacche illecite presenti nel Paese. Oggi i giudici non hanno gli strumenti adeguati a tal fine e rischiano, per questo, di muoversi in alcuni casi un po’ a casaccio.

L’ultima questione: dopo aver sancito il finanziamento solo privato dei partiti, ci si sta rendendo ora conto di quanto il sistema sia impreparato a tutto ciò. Siamo destinati a un eterno gioco dell’oca? 

La realtà è che il populismo ha portato ad assecondare l’assurda richiesta di abolire il finanziamento pubblico dei partiti in un paese come l’Italia. Questo significa – e diventerà evidente in campagna elettorale – consegnare i programmi dei partiti politici in mano ai gruppi di pressione in assenza di una legge che regolamenti il lobbying. Con tutti i rischi e le conseguenze del caso.

L’Italia non era pronta per un passo del genere?

L’ordinamento giuridico non era pronto nel suo complesso. Perché, come al solito, qui le riforme si approvano a pezzetti. Abbiamo fatto la legge sul finanziamento. Va bene. Ma tutto il contesto? Non ce ne siamo occupati. E’ come costruire una cattedrale nel deserto, di cui peraltro in Italia siamo piuttosto esperti.


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