Quando un economista bocconiano cui è stato affidato il compito – ingrato, è vero – di dare nuovo respiro alla piattaforma programmatica della sinistra riformista cita Gramsci e sostiene che è giunto il momento di rifarsi all’egemonia culturale”, beh, forse siamo già con un piede nell’abisso. Tuttavia una fiammella di speranza continua ad ardere: forse non voleva, forse non sapeva, forse l’intervistatore (Alessandro Barbera su La Stampa del 9 marzo) ha frainteso…
Quando però il partito che si è messo nelle sue mani sconfessa se stesso, ripudia i voucher, rottama l’eredità di Marco Biagi e del suo Jobs Act ante litteram (tranquilli, presto toccherà anche a quello vero: Pietro Ichino può iniziare a farsene una ragione), il sospetto diventa certezza: l’anatema del professore bocconiano contro la “bulimia riformista” non è una voce dal sen fuggita.
Tommaso Nannicini, già sottosegretario a Palazzo Chigi nelle stessa stanze in cui aveva debuttato come chief economist del (fu) riformismo renziano, annovera nel suo lungo curriculum una laurea in scienze politiche, una breve esperienza tra le fila del morente partito socialista negli anni del trapasso tra Prima e Seconda Repubblica, l’approdo nei Ds sotto l’ala di Enrico Morando, un liberal a tutto tondo che avrebbe fatto splendida figura tra i democratici americani quando l’astro di Clinton (Bill, non Hillary) splendeva alto nel firmamento progressista, ma che con gli ex comunisti non ha mai carburato al meglio, diciamo.
Insomma una serie di esperienze che dovrebbe averlo vaccinato contro il fascino del partito come “avanguardia cosciente” della società socialista. Forse, travolto dai suoi mille impegni, Nannicini ha perso di vista il calendario; e così si è dimenticato di fare il richiamo. In questo caso potrebbe giovargli la lettura di un agile saggio dato di recente alle stampe da Luciano Pellicani (Cattivi maestri della sinistra, Rubbettino), nel quale il sociologo e professore della Luiss, autore del celebre articolo su Proudhon con cui Craxi separò definitivamente il destino del Psi dal marxismo-leninismo, tratteggia con veloci pennellate il pensiero di Gramsci sulla rivoluzione ed il ruolo che in essa riveste il partito.
Scrive Gramsci nei Quaderni dal carcere che “il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo sviluppo significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico, diventa la base di una completa laicizzazione della vita e di tutti i rapporti di costume”.
Questo partito, che, spiega Pellicani, ricalca in versione secolarizzata la Chiesa medievale, per Gramsci è “il focolare della fede” e il “depositario della dottrina”. Il fondatore del Pci non si distaccò mai dalla concezione leninista del partito, solo la adattò alle diverse condizioni storiche e politiche della società italiana. La “guerra di movimento” contro la borghesia teorizzata da Lenin viene sostituita da Gramsci con la “guerra di posizione”. Ed è alla conduzione di questa guerra che l’egemonia culturale era ordinata, non ad altro. Tra un pensiero che proclama alta e forte la sua ispirazione totalitaria e la tradizione del riformismo socialista quale parentela ideologica potrà mai ipotizzarsi? Nessuna, dice Pellicani, perché la verità è che “sono sempre esistite due sinistre, di cui una era la negazione secca dell’altra”.
Non fa una piega, anche alla nostra (bassa) latitudine. Caro Nannicini, o con i voucher o con Gramsci.