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A Mosul e Misurata gli italiani saranno difesi anche da compagnie private o solo da Forze armate?

E se in futuro l’ospedale militare allestito a Misurata, in Libia, o i lavori di ristrutturazione della diga di Mosul, in Iraq, fossero protetti da compagnie di sicurezza private italiane anziché dalle Forze armate? Semplici esempi di ciò che potrebbe accadere se anche in Italia venisse regolata l’attività di quelle società.

Un tema che l’evoluzione della sicurezza e difesa a livello globale rende di grande attualità e che è stato approfondito in un convegno della Fondazione Icsa, presieduta dal generale Dino Tricarico, moderato dal giornalista Gianandrea Gaiani. Gli esempi di Misurata e di Mosul sono stati fatti da Nicola Latorre, presidente della commissione Difesa del Senato, come sintesi finale pur aggiungendo con chiarezza che non è realistico pensare a una normativa da varare in questa legislatura ormai quasi conclusa. Eppure una regolamentazione è ormai indispensabile perché si sente parlare genericamente di contractor, termine non sempre corretto e spesso erroneamente considerato l’equivalente di mercenario.

L’AMBIGUITÀ GIURIDICA

“La sicurezza non può più essere prerogativa dello Stato – ha spiegato il generale Leonardo Leso, in pensione dopo una vita nei Carabinieri con grandissima esperienza nelle forze speciali e all’estero e oggi presidente onorario di Skp Group di Milano – anche a causa della crisi economica che incide sui bilanci e quindi sugli apparati di difesa e sicurezza”.

Resta un’ambiguità giuridica di base visto che l’unica normativa esistente risale a un Regio decreto del 1931, mentre una regolamentazione consentirebbe ai privati di attingere ai militari a fine carriera (potenziali ottimi istruttori) o ai giovani che hanno ultimato la ferma volontaria di quattro anni. Ciò comporterebbe anche la possibilità per il settore privato di competere sul mercato mondiale che, ha detto Leso, fattura circa 250 miliardi di dollari l’anno.

Le cifre sono diventate da capogiro dai primi anni Duemila: secondo Gregory Alegi, docente di Storia americana alla Luiss, il colosso statunitense Blackwater nel 2000 fatturava 200 mila dollari l’anno e oggi arriva a 1 miliardo grazie alla crisi irachena. Basti dire che un sergente dell’esercito Usa, passando a Blackwater, riceveva uno stipendio sei volte superiore.

IL CONTROLLO DELLO STATO

Una materia così delicata impone soluzioni giuridiche chiare. Giancarlo Capaldo, procuratore aggiunto e capo del pool antiterrorismo di Roma, ha spiegato preliminarmente che ci sono compagnie private che offrono uomini e mezzi, quelle che fanno solo consulenza e addestramento, altre solo supporto logistico.

Tra di esse, negli anni alcune hanno “svolto compiti particolari che l’Italia non consentirebbe”. A ciò si aggiunge che in Italia non esiste una giurisprudenza sui due soli articoli del codice penale riferibili a questo settore (il 244 e il 288) perché mai applicati: oggi le attività di queste compagnie “sfuggono a tali norme, mentre lo Stato deve poterle controllare” ha concluso Capaldo proprio perché “l’interesse nazionale dev’essere il faro su cui orientarsi” secondo il generale Stefano Panato, per anni nell’intelligence.

SOLO L’ENI IN LIBIA

Regolamentare le compagnie private di sicurezza renderebbe più facile anche la protezione di molte aziende all’estero. Basta un esempio fatto dal generale Luciano Piacentini, un passato diviso tra il 9° Col Moschin e i Servizi segreti: “In Libia prima del 2011 operavano circa 200 grandi e medie aziende italiane, oggi è rimasta solo l’Eni che dispone di contractors”, tra l’altro della società inglese Aegis in evidente conflitto di interessi vista l’attenzione della Gran Bretagna su certe aree. Considerato che l’Italia dovrebbe creare “unità non combattenti” per proteggere le nostre aziende, Piacentini ha proposto una severa selezione attribuendo addirittura il Nos, nulla osta segretezza, “per evitare sorprese”. Proteggere significa anche sapere in anticipo dove sono gli italiani e i rischi che aumentano in tutto il mondo hanno avuto come conseguenza l’impennata di registrazioni al sito del ministero degli Esteri: le trasferte all’estero comunicate da 471 aziende, ha spiegato Stefano Verrecchia, capo dell’Unità di crisi della Farnesina, sono passate da 7.211 del 2013 a 67.311 dell’anno scorso. Secondo Verrecchia, questo dovrebbe comportare che la tutela del personale sia compresa nel costo aziendale, scelta però oggettivamente più difficile per le imprese più piccole che rischiano di dover rinunciare a certi appalti.

IRAQ, L’AUTOGOL ITALIANO

Che l’Italia sappia farsi del male è noto, che in tutto il mondo apprezzino la professionalità delle Forze armate nelle missioni e la via tutta italiana di porsi alle popolazioni è altrettanto noto. Poi, sono gli altri a riscuotere i dividendi. Ugo Trojano fu il primo responsabile del Prt (Provincial reconstruction team) di Nassirya, in Iraq, nella transizione da Brigata Sassari (2.600 uomini) a Brigata Garibaldi (scesi a 1.600) fino a un contingente di soli 300 uomini di scorta (più altri 300 in Italia per i turni). Fu l’allora ministro della Difesa Arturo Parisi, pur nell’ambito del ritiro del contingente, a rendersi conto della necessità di mantenere una scorta armata al Prt, ma una campagna di stampa durante l’allora governo di centrosinistra fece ritirare tutti gli uomini con il risultato che la scorta a una struttura per la prima volta comandata da un italiano fu assegnata dalla Farnesina agli inglesi “privati” della Aegis. Addio al Tricolore e successivamente gli affari in terra irachena li hanno fatti gli altri.

LAVORO PER CHI LASCIA LA DIVISA

In Italia ci sono circa 47mila guardie giurate e 30 mila soldati in ferma volontaria che “potrebbero dare una mano nella sicurezza: si darebbe lavoro a tanti italiani molto preparati ed eviteremmo lo spionaggio di altre nazioni”, ha detto con chiaro riferimento alla Aegis Umberto Saccone, già responsabile della sicurezza Eni dopo essere stato nell’intelligence e oggi amministratore della società di consulenza Grade. Il bisogno di sicurezza e il dovere di protezione si stanno allargando, come dimostrano i 70 italiani rapiti tra il 2004 e il 2016, di cui 63 salvati, 6 morti e uno (padre Paolo Dall’Oglio) di cui non si hanno notizie. Un mercato, quello della sicurezza privata, in grande espansione: Saccone ha spiegato che gli Usa ne controllano il 37 per cento e i Paesi emergenti dell’Asia il 24, oltre a quello che fa la Russia.

Oggi, secondo l’analista Pietro Orizio, i contractors in Afghanistan sono 26.022 e in Iraq 3.592 (dieci anni fa erano rispettivamente 217 mila e 164 mila). L’uscita dalle ambiguità è stata la richiesta anche di Luigi Gabriele, presidente di Federsicurezza che riunisce le società di vigilanza, il quale correggendo i dati di Saccone ha parlato di 90mila-120mila addetti tra armati e non. “Già oggi lavoriamo nelle basi Nato, nelle stazioni, negli aeroporti, perché non potremmo proteggere ambasciate e consolati?”. Nell’auspicata nuova normativa, Gabriele ha chiesto agevolazioni fiscali come nell’editoria che aiuterebbero il settore nonostante la crisi economica.

Che non ci sia più confine tra sicurezza interna ed esterna è ormai chiaro, ha commentato Latorre, così com’è necessario “tutelare le aziende senza consegnare le chiavi ai concorrenti”. Certo, “esternalizzare è cosa diversa da privatizzare la sicurezza e comunque la normativa va adeguata”. Con la legislatura agli sgoccioli, il convegno è stato un sasso nello stagno. Misurata e Mosul, per ora, restano alle Forze armate.

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