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Vi racconto la renzite acuta di Matteo Renzi

Matteo Renzi

Non appoggia troppo Paolo Gentiloni e Giuliano Poletti per la rottamazione dei voucher. Silura l’ipotesi governativa di aumentare l’Iva con la prossima manovra. Mette all’indice attraverso Matteo Orfini i ministri Piercarlo Padoan e Carlo Calenda ritenuti troppo tecnici e poco politici. Monopolizza le nomine nelle società partecipate dallo Stato formalmente decise tra Palazzo Chigi e Tesoro ma in verità architettate a Pontassieve.

È un Matteo Renzi sempre più di lotta e di governo quello che si sta muovendo con una certa iattante baldanza nonostante la sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre. E pensare che lui stesso aveva detto dopo la batosta elettorale di volersi dedicare soprattutto allo studio e alla scrittura di un libro. Era anche arrivato a invitare giornalisti e tv: lasciatemi stare, non menzionatemi, fatemi scomparire dai titoli dei tg (“Liberatemi, voglio scomparire dal ‘pastone’ del Tg”, aveva testualmente nell’ultima direzione Pd). In verità, come tutti i politici, non aspetta altro che qualche microfono o taccuino gli si avvicini per discettare, dettare, pontificare, sussurrare. È capitato ieri ad esempio con Maria Teresa Meli del Corriere della Sera incontrata forse casualmente.

Al Corriere ha riproposto tra l’altro il suo giudizio atarassico (“È una scelta del governo e come tale si rispetta”, come dire se ne assumono loro la responsabilità…) sulla decisione del governo di azzerare i voucher per sventare un esito negativo del referendum promosso dalla Cgil, che pure ha fatto ampio ricorso ai voucher. Giudizio che ha destato sorpresa a Palazzo Chigi, come ha svelato il notista Francesco Damato su Formiche.net. Non si è ben compresa la ragione della sculacciata renziana (e Formiche.net con più esperti, in primis Giuliano Cazzola, ha espresso perplessità sulla mossa dell’esecutivo) e soprattutto non si è capito che cosa avrebbe preferito lui se fosse stato ancora a Palazzo Chigi. Facile borbottare standosene in tribuna a godersi la partita fischiando sovente la propria squadra.

Ma mentre da un lato l’ex premier mugugna dall’altro si porta a casa nomine ultra renziane nelle maggiori di società partecipate dal Ministero dell’Economia retto da Padoan. Proprio uno dei ministri su cui Renzi si sta avventando con maggior foga. Ci ha pensato il presidente del Pd, Matteo Orfini, a randellare il ministro dell’Economia per un eccesso di tecnicismo e al quale il premier dà troppo potere (“Gentiloni cambi rotta su questo”, ha intimato Orfini in un’intervista a Repubblica negli scorsi giorni). Una scusa buona per allestire una guerriglia preventiva in vista della manovra: al governo (le nomine) si contrappone la lotta (sbeffeggiando il lavoro improbo sulla finanza pubblica).

Nella colonna dei bocciati per il basso tasso di politicità è stato inserito da Orfini (ovvero da Renzi) anche il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda. Per i renziani, Calenda punta a fare il front-man di una coalizione moderata alternativa al Pd. Una ricostruzione smentita dal diretto interessato a Francesco Verderami del Corriere della Sera: “Sono un ministro pro-tempore e non intendo ricandidarmi alle prossime elezioni”, ha replicato il titolare dello Sviluppo economico secondo il Corsera. Le ostilità di Renzi verso Calenda nascono – ha ricordato Verderami – da “un’intervista concessa da Calenda che, proprio nei giorni in cui Renzi provava a ottenere le urne in primavera, si mise di traverso definendo l’eventualità «un grave errore» che l’Italia avrebbe pagato sui mercati con l’impennata dello spread. L’ex premier si sentì impallinato e smise di parlargli”.

Evidentemente il fastidio renziano verso la sortita di Calenda nasceva dal fatto che il ministro stimmatizzava quello che il segretario dimissionario vede di buon grado: un’accelerazione prima o poi verso una crisi (una buona scusa si trova sempre), la caduta dell’esecutivo, il ricorso al voto anticipato. Ovviamente non prima di aver vinto le primarie e celebrato il congresso del Pd. Questioni molto di bottega, come si vede. Ma in casa Pd – che si chiami bottega o ditta alla Bersani – le priorità del Paese coincidono sempre e comunque con le priorità e le bizze dei segretari di partito, anche di quelli dimissionari.

Salvate Matteo Renzi dalla renzite acuta.

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