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Tutte le contraddizioni di Donald Trump su Siria e Assad

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Intorno alle sei di mattina di martedì la popolazione di una cittadina a sud di Idlib, Siria settentrionale, è stata colpita da un attacco chimico. La condanna della comunità internazionale è stata unanime, ritenendo il rais Bashar el Assad responsabile dell’atrocità usata per fiaccare fisicamente, e soprattutto psicologicamente, le opposizioni armate che controllano la zona. I civili uccisi sono 72 secondo le ultime stime, di cui 20 bambini sotto gli otto anni (i numeri sono da verificare): i sintomi riportati sono compatibili con l’avvelenamento soffocante e mortale da gas sarin, un composto chimico che viene prodotto quasi esclusivamente in laboratori militari tecnologicamente attrezzati (di cui solo il governo può disporre in Siria, da qui una delle varie prove circostanziali). Il New York Times in un fondo firmato dal consiglio editoriale ha definito l’attacco un nuovo livello di depravazione, perfino per Assad.

La Casa Bianca qualche ora dopo che le immagini erano iniziate a circolare online attraverso i testimoni e i media center dei ribelli (non ci sono testate indipendenti perché l’area è controllata da milizie radicali e dunque è sconsigliata la presenza di giornalisti occidentali) ha diffuso uno statement. Donald Trump ha condannato Assad come responsabile dell’attacco, ma ha accusato contemporaneamente il suo predecessore Barack Obama, ritenendolo responsabile per quanto accaduto a causa della sua inazione in Siria.

Al di là della prassi assai poco protocollare – inserire la polemica politica con i Democratici in un messaggio del genere – pochi minuti dopo l’uscita della dichiarazione dallo Studio Ovale è iniziato un fact-checking partecipativo sui social network che ha facilitato il lavoro di quei giornalisti che si occupano di monitorare la veridicità delle affermazioni dei leader politici, parte informale (ma fondamentale) del sistema di check-and-balance americano. È bastato cercare nell’archivio di Twitter per vedere che Trump nel 2013, quando Obama era sul punto di intervenire in Siria perché Assad aveva gassato i civili a Ghouta e superato una delle red line imposte da Washington, twittava contro l’azione americana. Dunque incolpare Obama come fatto nello statement ufficiale dalla Casa Bianca è quantomeno bizzarro, visto che Trump stesso aveva una posizione identica. Sono state varie le occasioni (qui un elenco) in cui tra il 2013 e il 2014 Trump aveva esortato l’allora presidente Obama affinché gli Stati Uniti restassero fuori dalla Siria, perché non era affar loro. (Alla fine Obama non intervenne, ovviamente non soltanto per gli inviti di Trump, ma come scelta strategica).

Anche durante un’intervista alla CNN del settembre 2015, Trump dichiarava che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto preoccuparsi della Siria: “Lasciamo che la Siria e l’Isis si combattono. Perché dovremmo preoccuparcene?”. A maggio del 2016, quando era candidato, disse alla MSNBC che gli Stati Uniti avevano problemi più grossi di Assad e che “dobbiamo starne fuori, senza combattere né per né contro Assad”.

La posizione presa dalla Casa Bianca è complicata anche da alcune dichiarazioni di questi ultimi giorni che raccontano come la visione della situazione in Siria non sia nemmeno troppo cambiata. Venerdì 31 marzo, il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer sosteneva che in conferenza stampa che gli Stati Uniti devono prendere atto che in Siria c’è una realtà politica da accettare, anche perché Washington ha un impegno più importante laggiù: combattere lo Stato islamico. Dunque il “must go!“, l’imperativo con cui Obama dettava la linea di rimozione di Assad, è stato sostituito dal “political reality” con cui Spicer spiegava la situazione in Siria appena prima di un attacco chimico compiuto con ogni probabilità da quella “realtà politica” (è un’altra di quelle dichiarazione di Spicer “for the ages” come dicono gli americani).

Questa linea che potremmo definire “abbiamo altro da fare e Assad è un male accettabile” è stata sostenuta in quegli stessi giorni dal segretario di Stato Rex Tillerson in conferenza stampa a margine di una visita in Turchia (e forse non è troppo piaciuta ad Ankara); da lì arrivano le dichiarazioni di Spicer. E soprattutto era stata già calcata dal presidente Trump durante la campagna elettorale: per esempio, a ottobre durante il secondo confronto televisivo con Hillary Clinton, l’ancora candidato repubblicano aveva detto che “la Siria sta combattendo l’Isis. Non mi piace Assad ma Assad sta uccidendo l’Isis” – posizione che aveva anche un valore politico, visto che Clinton era stata una delle principali sostenitrice del regime change siriano all’interno dell’amministrazione Obama.

Questa lettura, sbadata perché Assad in realtà combatte l’IS solo dove ha convenienza (e ha colpe immense nell’aver facilitato per interesse l’attecchimento siriano dei baghdadisti), è simile a quella che hanno diversi altri politici occidentali, che in questi ultimi mesi hanno frequentato Damasco. È grazie a questa doccia purificatrice diplomatica favorita dalla Russia che Assad ha assurto il ruolo di scomodo partner, ma accettabile, nella sfida globale della lotta al terrorismo. Nei giorni passati un quotidiano libanese vicino al regime siriano ha pubblicato un articolo che raccontava del viaggio nella capitale siriana di Tulsi Gabbard, deputata americana molto di sinistra, che avrebbe proposto ad Assad una conversazione telefonica con Trump, dicendo di essere là per conto della Casa Bianca (Gabbard ha smentito).

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