Pensavate che l’America di Trump fosse irrimediabilmente isolazionista, abbarbicata sul mantra iper-nazionalista “America first”? Sarà meglio che vi ricrediate. Alla prima crisi che si è trovata ad affrontare, provocata dall’infame attacco siriano con armi chimiche a Khan Sheikoun, la nuova amministrazione guidata dal tycoon newyorchese ha sfoderato il meglio della tradizione internazionalista che ha caratterizzato storicamente l’approccio di politica estera della superpotenza.
Ordinando la rappresaglia con 59 missili cruise contro la base da cui sono partiti gli aerei armati di gas sarin, Trump ha incarnato il ruolo del giustiziere che rimedia all’impotenza della comunità internazionale. I critici dello strike possono ripetere fin che vogliono le loro accuse all’unilateralismo americano. Sta di fatto che l’unilateralismo è la sola via con cui costringere il presidente siriano Bashar al-Assad a rispettare gli accordi che ha sottoscritto con la comunità internazionale quando, era il 2014, ha rinunciato al suo arsenale proibito e ha posto il proprio paese sotto l’egida della convenzione sulla proibizione delle armi chimiche.
E lungi dall’essere un’azione isolata, l’intervento USA in Siria sembra essere la base di una dottrina emergente che prevede un intenso attivismo su scala planetaria. Questo, almeno, è quanto traspare dalle dichiarazioni del segretario di Stato Rex Tillerson. Il quale, giunto in Italia per partecipare al summit dei ministri degli esteri del G7, ha detto ai reporter: “Noi vogliamo essere quelli che sanno rispondere a chi fa danni agli innocenti, in qualunque parte del mondo”. “ I rogue state di tutto il mondo sono avvertiti: violare la legalità internazionale e valicare le “linee rosse” d’ora in poi costerà caro.
Il primo fronte in cui applicare la dottrina Trump è e rimane la Siria. Vari membri dell’amministrazione, a partire dalla sanguigna ambasciatrice all’ONU Nikki Haley, hanno sottolineato in queste ore come lo strike alla base siriana di Shayrat non sarà isolato, se la Siria perseverasse nel ricorso ad armi di distruzione di massa. Ma la politica USA verso la Siria non si risolve affatto in un insieme di minacce e basta. Tillerson ha ricevuto il mandato di unire i sette grandi in una posizione diplomatica comune, finalizzata a fare pressioni sulla Russia affinché spinga l’alleato Assad a rinunciare alla hubris militarista e partecipare seriamente al negoziato di Ginevra. Dopo aver compattato gli amici giapponesi, britannici, francesi, italiani, canadesi e tedeschi, Tillerson si presenterà oggi a Mosca al cospetto del collega russo Lavrov, cui recapiterà il messaggio del fronte occidentale, cercando così di guadagnarsi la cooperazione di Putin.
Non sarà semplice, naturalmente. Insieme all’Iran, la Russia sostiene con determinazione l’alleato siriano, e questo fronte non sembra intenzionato a mollare le armi prima di aver sgominato definitivamente i ribelli anti-Assad. Ma adesso che gli Usa mostrano i muscoli e tessono la tela diplomatica, la prosecuzione ad oltranza delle ostilità si rivelerà alla lunga insostenibile. Abbandonata la riluttanza obamiana, gli Stati Uniti hanno messo sul piatto una carta decisiva per permettere alle trattative promosse dall’ONU di spiccare il volo. Non resta che attendere le prossime settimane per vedere se l’attivismo americano riuscirà davvero a piegare l’asse della guerra e costringerlo al tavolo della pace.