La stentata e pure contestata vittoria di Recep Tayyip Erdogan nel referendum sulla sua riforma costituzionale, che ne fa adesso il padrone della Turchia ma un po’ dimezzato rispetto alle originarie ambizioni e attese, dovrebbe consolare in Italia il nostro Matteo Renzi. E fargli chiedere come poteva pensare, lui, con mezzo partito contro, con tutti gli errori commessi nella campagna referendaria, e in un paese non traumatizzato come la Turchia, di vincere il referendum del 4 dicembre scorso. Col quale, peraltro, mai e poi mai, anche se fosse riuscito a vincerlo, avrebbe potuto disporre di meno della metà del potere che oggi Erdogan detiene.
I referendum d’altronde sono sempre un’insidia nei paesi democratici. Il generale e presidente Charles De Gaulle, che era appunto De Gaulle, nel 1969 fu battuto, e costretto al ritiro, in un referendum costituzionale minore rispetto a quelli più consistenti promossi e vinti nei dieci anni precedenti, dopo che aveva sotterrato la quarta Repubblica.
Gli emuli di De Gaulle in Italia sono stati pochi. Il più esplicito fu forse Amintore Fanfani, che però non osò neppure immaginare un referendum da cavalcare per realizzare le sue forti ambizioni di potere, spintesi al massimo al cumulo delle cariche di segretario della Dc, di presidente del Consiglio e, visto che si trovava, persino di ministro degli Esteri. Il capitombolo, a cavallo fra il 1958 e il 1959, proprio mentre De Gaulle si riaffacciava al potere in Francia, fu micidiale. L’uomo poi si riprese, ispirando a Indro Montanelli il soprannome di “Rieccolo”, ma onestamente non fu più lo stesso. Si azzardò a candidarsi al Quirinale alla fine del 1971 rimediando una sfilza interminabile di pugnalate a scrutinio segreto. Qualcuno scrisse sulla scheda: “Nano maledetto, non sarai mai eletto”. Il presidente dell’assemblea congiunta dei deputati, senatori e delegati regionali non ebbe il coraggio di leggerla, limitandosi ad annunciare: ”Nulla”. Poi perfidamente gliela offrì come cimelio, rifiutato.
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Renzi, ormai in dirittura di arrivo per il suo secondo mandato di segretario del Pd, dovrà accontentarsi di riscalare e conservare il potere con metodi meno duri, imparando che all’italiano in genere non piace essere governato più di tanto, fatta qualche drammatica eccezione, come quella di Mussolini. Che riempiva le piazza e tuttavia si lasciò scappare una volta, ben prima che la guerra lo spingesse alla rovina, che governare il suo Paese fosse semplicemente e rovinosamente inutile.
L’ex presidente del Consiglio deve farsi più astuto, anche se lui ritiene di essere astutissimo. Deve farsi “più ruffiano”, come una volta mi disse Indro Montanelli con tono paterno quando da capo della redazione romana del suo Giornale ebbi qualche problema col rappresentante sindacale, che mi aveva contestato un telegramma d’invito a telefonarmi mandato ad un collega che da tre giorni non si era presentato in redazione, senza alcuna spiegazione e creandomi un po’ di problemi nell’organizzazione del lavoro.
A Renzi consiglio, oltre a non insultare i giornali che lo attaccano, lasciandolo fare ad altri, di non ripetere nel suo secondo mandato di segretario del Pd l’avventura anche di Palazzo Chigi. Dove egli ha bisogno di un ammortizzatore, non di un mitragliere, visto che si sta tornando al sistema elettorale proporzionale e si dovranno necessariamente allestire alleanze dopo il voto, con tutti i compromessi che ne deriveranno. E si tolga dalla testa, con l’aria che tira, altre riforme costituzionali. Si accontenti piuttosto, come raccomandava di fare negli anni Ottanta la buonanima del mio amico Carlo Donat-Cattin, di una buona riforma dei regolamenti parlamentari.
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La Pasquetta purtroppo mi ha portato una brutta notizia: la morte di Piero Ottone. Di cui ho condiviso poco politicamente, come la troppa fiducia riposta nel Pci quando ancora i suoi legami con Mosca erano forti. Ed Enrico Berlinguer diceva di sentirsi protetto sotto l’ombrello della Nato, evitando però che se ne scrivesse sull’Unità, ma al tempo stesso era contrario a ripararne i buchi prodotti dal riarmo missilistico dell’allora Patto di Varsavia.
Ma il dissenso politico da Ottone era pari al rispetto che l’allora direttore del Corriere della Sera si meritava per lo stile personale, di grandissimo signore.
Una volta che Montanelli me ne parlò con un po’ troppa acredine, motivata d’altronde dalla rottura che si era consumata fra di loro, mi permisi di fargli presente l’eleganza di quel riconoscimento fatto da Ottone del valore suo, e dei colleghi che lo avevano seguito nella fondazione del Giornale, nel momento in cui disse di avere perduto “l’argenteria” di via Solferino. Una volta tanto riuscii a spiazzare il mio direttore, a tal punto che cominciò a scrivere su quel riconoscimento uno dei suoi “controcorrente”. Gli venne benissimo. Ma il giorno dopo non lo vidi pubblicato. Chissà cosa e chi lo trattenne.