Mercoledì 20 aprile il segretario alla Difesa americano James Mattis sarà in Egitto, in una tappa del suo tour con cui questa settimana farà visita ai principali alleati mediorientali degli Stati Uniti. Il presidente Donal Trump ha già incontrato l’omologo egiziano Abdel Fattah al-Sisi a inizio aprile, e tra i due c’è un certo feeling. La nota del Pentagono annuncia che al centro degli incontri di Mattis ci saranno le questioni regionali legate alla sicurezza. Il pensiero centrale sarà con ogni probabilità la situazione nel Sinai, dove il Cairo è impegnato in una massiccia operazione anti-terrorismo per sconfiggere la Provincia locale dello Stato islamico, che nonostante le attività militari egiziane non sembra indietreggiare, anzi. (Altro tema, probabile, la Libia: crisi delicatissima che vede il paese diviso in due blocchi guerreschi e che coinvolge diversi attori esterni. Andrà capito, a distanza di tempo, quanto gli Stati Uniti vorranno giocare assertivamente sulla situazione libico-mediterranea o quanto accetteranno le mosse messi in atto da Mosca).
LA SITUAZIONE EGIZIANA
Che cosa sta succedendo? “Dalla seconda metà del 2016, l’Egitto si presenta in una situazione di profonda instabilità politica, economica e sociale, nella quale il fattore terroristico si aggiunge inevitabilmente come causa ed effetto di questo contesto”, dice a Formiche.net Giuseppe Dentice, Ph.D Student Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, e ISPI Researcher nel Programma Mediterraneo e Medio Oriente. “Causa perché in assenza di alternative legali al regime, che si è contraddistinto per una repressione profonda e in taluni casi feroce di tutte le opposizioni politiche e sociali e con un dissenso pressoché azzerato, ancor di più dopo l’introduzione da parte del governo di nuove norme che ledono ulteriormente le libertà civili e di espressione, individuali e collettive, il terrorismo diventa per certi versi una valvola di sfogo per le numerose frange marginalizzate della società egiziana (in particolare quelle giovanili)”.
L’EFFETTO SISI
“Allo stesso tempo – aggiunge Dentice – questo fattore diventa un effetto del contesto nazionale altamente divisivo e polarizzato che ha portato il regime ad assumere una postura democratica involuta rispetto a quella transizione verso la democrazia proclamata dal governo di unità nazionale, nel quale il presidente al-Sisi era “solo” il ministro della Difesa, all’indomani della destituzione del presidente legittimo Morsi nel luglio 2013”. Dunque pare che il pugno duro di Sisi contro le istanze islamiste non ha affatto migliorato la situazione? “Gli attentati che stanno infiammando l’Egitto diventano in un certo senso l’effetto della politica di securitizzazione/militarizzazione del paese condotta dall’attuale amministrazione. In questo contesto trova facilità di azione il furore reazionario della branca egiziana dello Stato islamico (IS), il cosiddetto Wilayat Sinai (WS, Provincia del Sinai, formazione precedentemente nota come Ansar Bayt al-Maqdis, ABM) e delle cellule a essa affiliate o di quelle vicine ad al-Qaida”.
LA NUOVA STRATEGIA DELL’IS EGIZIANO: COLPIRE I CRISTIANI
“WS sta attuando una nuova strategia volta a colpire la comunità cristiano-copta nazionale (circa il 10% della popolazione totale)”, spiega Dentice. “È una lunga striscia: l’attentato contro la Chiesa di San Marco al Cairo il4 dicembre 2016, l’uccisione, dall’inizio dell’anno, di circa una ventina di cristiani ad al-Arish, capitale del governatorato del Nord Sinai, e gli ultimi attacchi alle chiese di Tanta e Alessandria nel nord del paese dimostrano ancora una volta la mutevolezza del messaggio jihadista che, a seconda delle necessità e delle difficoltà del momento, si adatta a colpire nuovi target e a intraprendere strategie alternative”. Che cosa si legge dietro a queste azioni? “C’è il travalicamento dei confini non solo geografici della violenza jihadista dal Sinai all’entroterra egiziano (e quindi alle principali città, cuori pulsanti del potere militare), nonché un tentativo di esportare le violenze settarie e le medesime tattiche adottate altrove in Medio Oriente (vedi in Siria e Iraq, ad esempio) per far implodere socialmente un paese come l’Egitto centrale nelle strategie politiche ed economiche dell’intera area mediterraneo-mediorientale”.
LE PROVINCE DEL CALIFFATO
La Wilayat Sinai è una delle più attive province al di fuori dello stretto territorio califfale – quello del Siraq, il cuore del Califfato tra Siria e Iraq. Le province sono hotspot che hanno collegamenti diretti con la struttura centrale dell’IS: in pratica sono un pezzo di Stato islamico. Un esempio: quando la Domenica delle Palme due attentatori si sono fatti scoppiare in due chiese cristiane copte egiziane, i media outlet del Califfato hanno parlato di “operazione” e non come successo tante altre volte per episodi come quello di Nizza, Berlino, Londra, di “soldati dello Stato islamico” che hanno “risposto alla chiamata” combattendo i membri della Coalizione internazionale anti-IS. Questo significa che gli attacchi che colpiscono l’Egitto, sia gli episodi contro i civili che ormai si spingono fino alle città più importanti, sia le stragi di militari che finisco con cadenza settimanale in trappole esplosive nel Sina, sono azioni pianificate dalla catena di comando centrale.
L’ALTRO LATO DEL CONFINE: ISRAELE
In una situazione così pericolosa per l’Egitto, anche Israele diventa un attore direttamente interessato, innanzitutto per la vicinanza. Mercoledì 21 aprile Mattis ripartirà dal Cairo per proseguire il suo viaggio verso Tel Aviv, dove probabilmente continuerà a trattare lo stesso argomento. Israele segue con attenzione e preoccupazione quello che accade appena oltre i valici sul Sinai. “La paura è – spiega Dentice – che potrebbe saldarsi una qualche alleanza asimmetrica tra gruppi jihadisti transnazionali palestinesi-egiziani per colpire lo Stato ebraico dalla Penisola sinaitica e dalla Striscia di Gaza”. Nei mesi scorsi si è parlato di operazioni interne ad Hamas, che non dispiacevano al governo centrale israeliano, per contenere questo travaso. “Molto dipenderà infatti dalla capacità dell’amministrazione di Hamas al potere nella Striscia (sebbene l’attuale establishment sia notevolmente noto per le proprie posizioni radicali anti-sioniste e anti-israeliane in generale) di impedire una convergenza strategica tra queste organizzazioni jihadiste. Alcune prove tecniche di ciò sono i lanci di razzi dal Sinai e da Gaza, alcuni rivendicati dal Wilayat Sinai, altri da gruppuscoli attivi nella Striscia, contro alcuni villaggi e città del sud di Israele”. Ufficialmente Hamas e Stato islamico sono su posizioni jihadiste opposte.
IL CONTENIMENTO ATTIVO ISRAELIANO
Che cosa sta facendo Israele? “Cerca di contenere, per adesso. All’indomani degli attentati della domenica delle Palme per esempio, ha chiuso il confine condiviso con l’Egitto. L’attenzione è concentrata nella zona tra Taba ed Eilat, dove da tempo i servizi di intelligence israeliani temono di poter subire un attentato da parte di gruppi infiltrati provenienti dall’Egitto. Mesi fa Tel Aviv ha anche dispiegato la brigata di fanteria Caracol lungo il valico di Nitzana, con il preciso compito di intervenire in caso di attacchi prolungati e/o pericolosi assalti lanciati contro la comunità civile del Negev israeliano”. Ci sono anche operazioni parallele e meno evidenti. “Sì, si tratta di raid aerei con droni, anche se questo è stato sempre smentito, nel Sinai contro i gruppi jihadisti locali. Oppure la smobilitazione dei villaggi beduini in territorio israeliano ufficialmente per motivazioni legate a piani edilizi irregolari, in realtà ufficiosamente collegabili a timori diffusi di infiltrazioni terroristiche in Israele, dato che dall’altro lato del confine, i beduini egiziani hanno dato appoggio e coperture ai gruppi jihadisti attivi nel Sinai. In questo modo, rafforzando il fronte meridionale, Israele pensa di contenere qualsiasi tipo di minaccia lungo i propri confini e al tempo stesso essere pronta a contrattaccare tenendo sotto scacco Egitto e Gaza”.