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I primi cento giorni di Trump e il contratto con gli americani

Sabato 29 aprile, alla fine della settimana politica più intensa della sua amministrazione (voto sul budget, riforma fiscale, ritorno della riforma sanitaria, più vari provvedimenti minori), Donald Trump segnerà i primi cento giorni in office, passaggio importante, convenzionalmente usato per comprendere qualcosa di più sulla rotta di un governo.

EFFICIENZA E FRENESIA

I 100-Days sono già celebrati sul sito istituzionale whitehouse.gov con un’ampia sezione dedicata (“First 100 Days“) che anticipa la cerimonia semi-ufficiale di Harrisburg (in Pennysilvania), e “l’energia cinetica che esce dalla West Wing, che a volte sconfina verso il frenetico, rivela quanto la Casa Bianca sia desiderosa di marcare la soglia con alcune vittorie tangibili” scrive il Washington Post; “ma evitare lo shutdown non è già una vittoria di cui accontentarsi?”, ci si chiedeva su Forbes. Però occhio, aggiunge il WaPo, perché Trump “gestisce la his White House come un dramma televisivo, credendo che a volte la proiezione di un’immagine di energia è altrettanto importante, se non di più, rispetto alla realtà”. Dunque non è detto che riesca nei fatti, più di certo nella narrativa: per esempio, mercoledì ha annunciato una riforma fiscale storica, presa però poco sul serio dai mercati; e forse è anche perché nello stesso giorno ha pure dichiarato che l’accordo commerciale con Messico e Canada (NAFTA), che durante la campagna elettorale era l’odiatissimo “worst deal ever“, dovrebbe restare in piedi con qualche rinegoziazione. E poi ci sono le incoerenze: mentre i funzionari dichiaravano ai media americani le grosse attività in ballo in questo momento, il 21 aprile Trump definiva la scadenza “un ridicolo standard”.

FARE QUALCOSA, QUALSIASI COSA

Le attività concentrate in questa settimana sembrano un disperato tentativo per dimostrare che fare qualcosa, qualsiasi cosa, sia meglio di essere fotografati al primo intertempo come un’amministrazione senza risultati legislativi raggiunti; sembra di trovarsi davanti a un “derviscio rotante” è l’immagine brillante che ne dà ancora il WaPo. Però, in effetti, se si guarda alla realtà: niente riforma sanitaria, solo una bozza di principi per la riforma fiscale, niente muro col Messico, i ban duri sull’immigrazione bloccati dai tribunali, il budget appeso a qualche sottrazione dalle proposte più forti per non indispettire i falchi dei tagli, il programma per gli incentivi alle infrastrutture in cerca di fondi e non attivato.

A CHE PUNTO SIAMO COL PROGRAMMA ALLORA?

Ai tempi della campagna elettorale, il contratto con gli americani girava tra gli elettori sotto forma di un modulo che riportava alcuni punti programmatici con in calce la firma del candidato prestampata e uno spazio vuoto dove ognuno poteva controfirmare. A quei tempi i cento giorni, ben impressi sotto e sopra i punti del programma per fare da timeline esistenziale a un presidente che si presentava come il distillato dell’operatività rapida ed efficace, erano un traguardo da sottolineare con annunci e promesse. Adesso, se ci si confronta con quel modulo, si scopre che finora nessuno dei punti è stato messo in atto completamente. Il fact checking è uno strumento crudele: il Washington Post segna oltre 280 promesse fatte da Trump durante la campagna elettorale, di queste il 22 ottobre ne sono state raccolte nel Contratto 60. E allora, a che punto siamo? Numeri, non oltre: cinque solo sono state mantenute come da scadenza, una quella sul Nafta andrà chiarita (perché la promessa era uscire, ma ora si parla di rinegoziazione), cinque già infrante, tre bloccate, una al compromesso (quella sulle assunzioni del governo federale, che sono state sospese solo per 90 giorni e saranno limitate, non bloccate come annunciato), undici sono avviate ma ferme in un limbo in attesa di definizione, 34 non sono state ancora prese in considerazione.

LO STALLO

Risultato positivo solo per meno del 10 per cento del programma. E la principale vittoria politica, Neil Gorsuch nominato giudice della Corte suprema (una delle promesse mantenute, insieme per esempio alla riapertura dei progetti Key Stone XL e Dakota Access. fatti passare come grandi risultati ma in realtà obiettivi secondari), passaggio importante anche per il partito perché riporta i repubblicani in vantaggio tra i rappresentanti alla massima assise, è finita in secondo piano perché realizzata lo stesso giorno del bombardamento ordinato per rappresaglia in Siria. Marc Short, responsabile per gli affari legislativi della Casa Bianca, ha detto ai giornalisti che il problema è il sistema burocratico che rallenta l’azione di governo. Per John McCain, leader repubblicano al Senato e critico di Trump, l’amministrazione è invece in un’evidente “fase di stallo”.

GOVERNARE E ORDINARE

Mentre anni fa (per esempio: un tweet del 2012) Trump criticava l’amministrazione Obama per aver utilizzato troppo gli ordini esecutivi, il 25 aprile la Casa Bianca ha diffuso uno statement vantando un record dell’attuale presidente nell’emissione di e.o., passati dall’essere strumento dell’autoritarismo a mezzo per l’efficienza di governo (nota di colore: nella comunicazione c’era inserita anche una imprecisione nel confronto con gli ordini emanati nei primi cento giorni da Franklin D. Roosevelt). A conti fatti gli executive order sono per il momento l’unica via con cui Trump ha raggiunto qualche successo, al di là della narrazione, perché di sue leggi approvate dal Congresso se ne contano zero (nota: anche la nomina di Gorsuch è passata con una forzatura al regolamento del Senato, la cosiddetta “nuclear option”). Però, suggeriscono gli analisti, in fondo Trump sta solo proponendo per la sua amministrazione la tecnica dell’iperbole veritiera, già illustrata nel suo libro più famoso, “The Art of Deal”: “Non tutti sanno pensare in grande, ma quasi tutti sono attratti da chi lo fa. Ecco perché un po’ d’iperbole non fa mai male […] Io la chiamo ‘iperbole veritiera’. È una forma innocente di esagerazione, e ancor più efficace di promozione” scriveva.

I NUMERI

Sintesi estrema e succo politico: alla fine come vanno le cose in termini di consenso? Malino per i dati assoluti: secondo un sondaggio di Nbc e Wall Street Journal il gradimento di Trump sta intorno al 40 per cento, e il confronto con i suoi stretti predecessori nei primi cento giorni è impietoso, perché Barack Obama stava al 61, George W. Bush al 56, President Bill Clinton al 52 per cento. Ma il dato relativo migliora: il lavoro svolto finora da Trump piace alla minoranza degli americani, però tra i suoi elettori la percentuale sale rapidamente al 93. Di questi il 42 per cento ancora approva pienamente l’azione di governo, mentre il 51 solo in parte (dati ripresi dal blog di comunicazione politica US Insider relativi alle analisi del Center for Politics dell’University of Virginia). C’è un ampia fetta di potenziali scontenti, ma i numeri dicono che Trump per adesso non ha perso il suo elettorato (e magari anche grazie alle iperboli veritiere).

 

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