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Perché Trump e Putin non sono così vicini (almeno sull’Afghanistan)

Giovedì due Ranger americani sono stati uccisi durante un’operazione militare contro lo Stato islamico nel Khorasan, la provincia afghana del Califfato. La vicenda è avvenuta ad Achin, la stessa zona in cui gli americani avevano sganciata la super-bomba Moab per sbloccare una situazione critica contro i baghdadisti (la bomba evidentemente non è bastata, nonostante abbia avuto un effetto mediatico e politico).

IL DOPPIO FRONTE

Gli uomini del Califfo sono una complicazione in più che da un anno e mezzo affligge il Paese, già dilaniato da anni di guerra contro altri ribelli jihadisti, i Talebani. Il gruppo fondamentalista un tempo comandato dalla guida suprema del Mullah Omar (non riconosciuto dai baghdadisti perché il suo ruolo era in sovrapposizione a quello del Califfo) negli ultimi mesi è tornato all’offensiva, conquistando fette di territorio, anche spinto dalla concorrenza con l’IS. È stata già annunciata la campagna di primavera (appuntamento annuale che quest’anno ci si aspetta anche più vuolento). Dunque in questo momento il territorio afghano è luogo di un doppio fronte, lo Stato islamico e i talebani.

ARMI AI TALIBAN

Lunedì il capo del contingente internazionale in Afghanistan, il generale americano John Nicholson, ha detto davanti ai giornalisti riuniti per una conferenza stampa che dietro la nuova spinta dei Talebani ci sono anche i russi, che stanno fornendo supporto militare al gruppo. La dichiarazione di Nicholson segue una linea che da qualche tempo sta prendendo piede ed era stata anticipata già dalle solite fonti anonime di difesa e intelligence che arricchiscono la stampa americana: osserviamo che Mosca sta passando segretamente armi, incluse mitragliatrici da campo e sistemi anti aerei, ai ribelli afghani, dicono i funzionari americani.

I passaggi avverrebbero principalmente nelle province di Helmand, Kandahar e Uruzgan, che sono anche i luoghi in cui i ribelli combattono l’esercito locale e la coalizione a guida Nato che sette anni fa ha facilitato il regime change attraverso il quale i fondamentalisti talebani sono stati estromessi dal potere — la Nato ha ancora in piedi in Afghanistan la più grande operazione della sua storia, un intervento collegiale in risposta alla chiamata di Washington che voleva contrattaccare perché i Taliban fornivano copertura e protezione alla leadership di al Qaeda, che in quell’anno aveva ordinato la strage dell’11 settembre.

IL PESO DI MATTIS

Quello che ha detto il generale assume sia un valore ufficiale, visto la dichiarazione esplicita, sia un peso politico importante, perché a fianco a lui c’era il segretario alla Difesa americano Jim Mattis. Il capo del Pentagono era volato a Kabul in visita a sorpresa (di rientro da un tour in Medio Oriente) per fare il punto della situazione sul doppio fronte. Temi IS: quanto è forte? (La Moab è stata usata senza che Mattis ne fosse a conoscenza, dicono le indiscrezioni dei media americani a conferma della maggiore libertà lasciata dall’amministrazione Trump agli ufficiali sul teatro operativo, ma il punto è se si è resa necessaria significa che l’IS è diventato una minaccia persistente nel paese?). Fronte Taliban: il giorno precedente alla visita del capo del Pentagono c’è stato un attacco dei ribelli talebani che ha ucciso 140 soldati in una caserma di Marz-i-Sharif; si è trattato del più sanguinoso attentato degli ultimi 16 anni, tanto che sommersi dal peso della responsabilità il ministro della Difesa Abdullah Habibi e il Capo di Stato Maggiore Qadam Shah Shahim si sono dimessi, e la presenza del segretario serviva anche da rassicurazione.

Mattis, dopo incontri di routine con militari e governo a Kabul, è uscito dal protocollo previsto durante la conferenza stampa e ha seguito la strada dettata da Nicholson, rincarando la dose sulla Russia. Ha scelto di essere “un concorrente strategico americano in varie aree”, l’Afghanistan è uno di queste, ha detto: “Quello che stanno facendo è contrario al diritto internazionale”, stanno togliendo sovranità a Kabul. (Per inciso, la conclusione di Mattis, legata alla situazione generale del paese, è stata: potrei anche richiedere alla Casa Bianca di autorizzare l’aumento del contingente, politica opposta diametralmente al ritiro forzato dall’amministrazione Obama, e potremmo chiedere agli alleati di fare altrettanto).

LA REAZIONE RUSSA

La denuncia di Nicholson ha preso così una via ancora più solenne, tanto che il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov il giorno dopo ha voluto deviare i temi di un briefing stampa a margine del suo incontro con il segretario dell’Osce Lamberto Zannier, per definire le dichiarazioni americane “non professionali e senza fondamento”. Stanno mentendo e chi si occupa di intelligence negli Stati Uniti sa che non c’è nessun fatto che possa testimoniare queste accuse, “ci stanno dando la colpa degli errori commessi da Washington” e stanno di nuovo tornando sulla retorica del “regime change”, è evidente, ha chiuso Lavrov, dalla loro non volontà di partecipare alla conferenza di pace sull’Afghanistan organizzata a Mosca.

CHE COSA FA MOSCA?

Il Cremlino non ha negato contatti con il gruppo ribelle afghano, ma ha parlato di scambio di informazioni finalizzato alla lotta contro lo Stato islamico, che rappresenta un nemico tanto per la Nato, quanto per Mosca e per i Talebani. È possibile che con i passaggi di armi i russi cerchino di rafforzare il gruppo storico locale, mosso da istanze fondamentalmente nazionaliste e disinteressato ad attacchi all’estero, per farlo prevalere sui baghdadisti, che invece sono una minaccia terroristica da tenere fuori dall’area di influenza ex sovietica. Una scelta sul male minore, insomma. È impossibile però che Mosca non abbia previsto che consegnare armi ai talebani significhi che poi possano essere rivolte contro le forze Nato dai jihadisti afghani.

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