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Ecco gli effetti nefasti dell’ultima trumpata di Trump con la Russia

Rijabkov

La rivelazione da parte del presidente Donald Trump di un’informazione di intelligence altamente riservata al ministro degli Esteri russo, durante un incontro avvenuto mercoledì scorso nello Studio Ovale, è un argomento clamorosamente delicato per una serie di ragioni. Anche per questo la linea seguita dalla Casa Bianca – tutta, staff più Trump, detto separatamente come fossero due entità a sé stanti, tant’è – è stata quella di minimizzare: sono uscite informazioni, sì, ma non erano così tanto segrete.

Lo scoop uscito lunedì sul Washington Post è solido, anche perché è stato corroborato da altre fonti che, una volta aperta la falla, hanno parlato con altre testate – la situazione indispone molto il presidente, che infatti ha tuonato contro i leak che escono dalla sua amministrazione (aspetto che è di riguardo, ma non certo il punto della questione). C’è un enorme interrogativo sulle capacità di Trump di rivestire il ruolo di commander-in-chief che la vittoria elettorale gli ha affidato (“unfit” dicono gli americani più ciritici). Se, come sostengono alcuni commentatori, il presidente americano ha semplicemente voluto vantarsi dei successi ottenuti dai propri servizi segreti, per uscire da una situazione di nervosismo in cui i funzionari russi (ministro e ambasciatore negli Stati Uniti) lo avevano messo, il problema è evidente. (Nota: non sarebbe la prima volta che Trump fatica a tenere la giusta agilità mentale in situazioni sotto stress e scivola in gaffe: un esempio, quando non diede la mano alla Cancelliera tedesca ammise più tardi di non aver sentito la richiesta, perché c’era molto caos intorno a lui e si era confuso). Ancora peggiore sarebbe se si seguisse un altro ragionamento sostenuto da altri commentatori: il presidente non si è reso conto che condividere quel tipo di informazioni era rischioso per tutta una serie di ragioni.

Passo indietro: di che cosa stiamo parlando? Il capo della democrazia americana ha detto ai due membri della delegazione russa che gli hanno fatto visita che un paese alleato (Trump ha detto anche il nome, il WaPo lo sapeva, ma non ha diffuso l’informazione su richiesta della Casa Bianca, poi martedì il New York Times ha aggiunto quel che mancava: era Israele) ha passato informazioni agli americani su un piano dello Stato islamico per colpire attraverso ordigni posizionati nei computer portatili da far esplodere durante un volo di linea. Trump ha detto anche che il piano è in preparazione in una specifica città della Siria (qui vale lo stesso discorso fatto sopra per il nome dell’alleato, solo che la città ancora non è ancora nota). Sono due dati rilevanti, che svelano in parte la metodologia di intelligence utilizzata dagli americani, condivisa con gli alleati, e dunque da qui si apre l’argomento: gli altri Paesi potranno in futuro fidarsi di condividere certe informazioni con gli Stati Uniti, se poi il rischio è che finiscano in mano a un presidente che ne fa un uso così disattento? Risposta già arrivata in forma anonima alla Associated Press: un alto funzionario dei servizi segreti di un Paese europeo ha detto ai reporter che “se le cose stanno così” rivedremo i metodi di condivisione dell’intelligence con gli americani. Rimbalzo globale: un membro sconosciuto della Commissione parlamentare tedesca sull’Intelligence ha dichiarato che ‘se le cose stanno così’, significa che Trump è diventato una minaccia alla sicurezza internazionale.

Indipendentemente dalle questioni parallele (rapporto con alleati, capacità di leadership, fiducia interna alle istituzioni, debolezza sotto stress), tutte vere, vale la pena concentrarsi proprio sull’informazione condivisa. Prevenire un attentato è un lavoro minuzioso, frutto di lunghi periodi di attesa dove i risultati arrivano lentamente. Ma è l’unica forza possibile contro il terrorismo transnazionale di gruppi come l’IS. Queste attività di intelligence sono conseguenza quasi sempre di sinergie tra alleati, dove gli Stati Uniti mettono spesso gli strumenti tecnologici, mentre altri paesi partner mettono in campo la conoscenza specifica dei contesti culturali in cui si lavora (e dunque l’intelligence umana, HumInt). Nel caso, il pezzo del WaPo dice infatti che l’informazione arrivava da “un alleato che ha accesso ai lavori interni allo Stato islamico”: è toccato a Israele, ma poteva trattarsi di altri partner regionali come Giordania, Arabia Saudita, Iraq, Kurdistan iracheno, Turchia. Tutti Paesi che lavorano in collaborazione con Washington contro i baghdadisti e che riescono più facilmente a contattare o infiltrare uomini nel sistema di comando interno al Califfato – “più facilmente” nell’enorme difficoltà generale di infiltrare una spia in un’organizzazione che fa della sicurezza interna un concetto paranoico, ma che inevitabilmente ha delle falle.

Gli Stati Uniti sono in contatto continuo con questi alleati, sia sul piano militare che politico. Martedì mattina Trump ha parlato al telefono con il re giordano; martedì sera ha ospitato alla Casa Bianca il presidente turco; tra due giorni partirà per un viaggio in cui toccherà Israele e Arabia Saudita, passando per un vertice Nato e per il G7. La fiducia in Washington sarà uno dei temi sotto traccia dei prossimi meeting? L’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti ha già detto di no in una mail mandata al Nyt, ma è plausibile pensare che sia una postura diplomatica che dietro cela atteggiamenti da rivedere. Si ricorderà che il clima di sfiducia tra intelligence e Trump è questione lontana (per quanto “lontana” possa aver senso in questi soli, ma densissimi, quattro mesi di amministrazione): se ne parlava a febbraio, quando sembrava che nei briefing di intelligence presidenziali si omettessero dettagli su fonti e metodi di acquisizione per paura che Trump li spifferase in giro.

Se ci fossero dubbi su quanto importante sia questo genere di collaborazioni, basta ricordare che è grazie a certe operazioni congiunte che l’IS è stato decapitato con quella serie di attacchi mirati che nel corso degli ultimi diciotto mesi ne hanno decimato la leadership (sia in Iraq e Siria, sia in Libia o in Afghanistan). Una volta scoperte fonti e metodi – Trump non li ha svelati, ma ha dato ogni dettaglio perché farlo potesse diventare un compito meno complicato – queste attività potrebbero essere inefficaci, e priverebbero la Coalizione internazionale di un vantaggio tattico enorme. Di più: potrebbero essere manipolati o utilizzati per i propri fini dall’altra coalizione che combatte in Siria, quella composta da Damasco, Teheran e Mosca, che vede l’IS come un elemento da sfruttare più che come il nemico da combattere – il regime siriano, di cui Iran e Russia sono alleati (e molti dei partner americani sono nemici), ha infatti da sempre utilizzato lo storytelling terroristico collegato all’esplosione del Califfato per schiacciare i ribelli: inquadrarli tutti come jihadisti e terroristi ha da sempre reso più potabili le orrende repressioni di Damasco, che ha potuto sfruttare la sovrapposizione geografica delle due situazioni (guerra civile e guerra all’IS) per distrarre gran parte dell’opinione pubblica. Perdere quel vantaggio accumulato con anni di lavoro, rende non solo più insicure le operazioni alleate sul campo, ma in generale è un passo indietro nella lotta al terrorismo globale.

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