“Sto per mandare alla Commissione europea una proposta di normativa che regola l’acquisizione da parte di soggetti extraeuropei di società con capitale tecnologico molto significativo che può essere facilmente delocalizzato”. E’ quanto ha detto oggi il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, in un convegno promosso dalla commissione Industria del Senato presieduta da Massimo Mucchetti sullo “Stato azionista”. La paura di Calenda si chiama soggetti che non appartengono “a un’economia non di mercato”, come la Cina.
L’IDEA DEL MINISTRO
Il ministro ha poi aggiunto: “Lo Stato deve avere voce in capitolo, le operazioni devono essere notificate, non vietate e eventualmente condizionate”. Altrimenti “vedremo nei prossimi anni molte acquisizioni che rappresentano interventi di natura predatoria, non di mercato”. Ma è certa una cosa: “l’Italia non si salverà resuscitando l’Iri”. L’idea del ministro, in caso di ok di Bruxelles, è quella poi di dare vita a un Ddl dove oltre a questa misura che si affiancherebbe al «golden power» già regolamentato a livello nazionale, potrebbero rientrare le norme anti scorrerie sulle scalate finanziare originariamente attese nella legge sulla concorrenza.
MERCATO SI’, PREDONI NO
“Abbiamo bisogno di un liberalismo pragmatico, in grado di difendere i nostri interessi”, ha aggiunto il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, cui è stata affidata la chiusura dei lavori: “Alzare le mani davanti a qualcuno che vuole comprare un’industria strategica”, ha proseguito Calenda citando in proposito il caso Mediaset-Vivendi: “Non è libero mercato, né tantomeno mercato”. Per il responsabile dello Sviluppo il messaggio è chiaro. Nessun protezionismo ma occhio ai “predoni” che vogliono mettere le mani su pezzi dell’economia italiana. “Io credo che se c’è un’impresa extra europea che vuole acquisire, per esempio, della tecnologia italiana considerata strategica allora io penso che lo Stato debba avere voce in capitolo, approfondendo e ponendo un perimetro se necessario. Questo è quello che io chiamo liberalismo pragmatico, impedire comportamenti scorretti”.
I TEMI DEL DIBATTITO
C’era una volta l’Iri, il maxi-ente di Stato con cui allungare le mani e mettere in sicurezza i settori strategici dell’industria italiana. Tramontato lo statalismo a tutti i costi, è arrivato il libero mercato, dunque massicce privatizzazioni, Tim (allora si chiamava Telecom) su tutti. Ma anche Alitalia, affidata ai privati nel 1996, con esiti tutt’altro che felici. Eppure un pezzo di Stato nell’economia resiste ancora. Al posto dell’Iri c’è la Cdp, sotto il cui cappello, per esempio c’è la cantieristica nazionale, Fincantieri. Lo Stato è persino comparso tra le banche, come dimostra il caso Mps, col Tesoro costretto a diventare azionista di maggioranza per evitarne il crack. Al Senato questa mattina, in un convegno promosso dalla commissione Industria presieduta da Massimo Mucchetti, si è parlato proprio di questo: oggi parlare di ritorno dello Stato nell’industria, ha senso oppure è solo nostalgia fuori tempo massimo?
ERA MEGLIO TENERSI TELECOM?
Massimo Florio, professore di Scienza delle Finanze a Milano, ha presto l’annosa questione dal lato telecomunicazioni. Arrivando a una conclusione: “Tutti quei governi che nonostante le liberalizzazioni hanno mantenuto quote strategiche in gruppi telefonici, si sono garantiti negli anni robusti dividendi”, ha spiegato. In altre parole, tenersi strette le varie Telco, conviene eccome. E’ il caso di Orange, l’ex France Telecom, di cui il governo francese detiene il 23%. O di Deutsche Telekom, visto che Berlino ha in pancia ancora il pacchetto di controllo. Non è stato così per l’allora Telecom Italia, da cui il Tesoro è uscito quasi completamente a partire dal 1997.
DIFENDERE GLI INTERESSI NAZIONALI (MA COME?)
Che in Italia, dopo gli anni delle privatizzazioni su larga scala ci sia un certo partito dello Stato azionista è fuori dubbio. Solo che il mondo non è più quello degli anni Ottanta o Novanta, ci sono delle regole, incluso lo spettro europeo dell’aiuto di Stato. Per il senatore Mucchetti, per esempio, non c’è niente di demoniaco nel ripensare un ruolo pubblico nell’economia, soprattutto se l’imperativo è “presidiare gli interessi nazionali”. Ma bisogna fare attenzione e non prendere il tutto alla leggera. “Il ritorno dello Stato azionista deve essere accompagnato da un pensiero strategico per il futuro e per la tutela degli interessi nazionali. Negli anni Novanta la ritirata dello Stato dall’economia era considerata la premessa per lo sviluppo. Ma nel 2017 lo Stato ritorna”, ha detto Mucchetti ricordando il caso del decreto salva banche, alias Mps. Di qui quella che è parsa ai convenuti un invito a non esitare e tirare fuori l’arma pubblica quando sono in gioco interessi industriali di un certo calibro. “In Italia l’elenco delle grandi imprese acquisite dagli imprenditori esteri si allunga e se a volte può essere un bene spesso non lo è lo Stato, finché è azionista, deve esercitare in pieno le responsabilità che ne derivano”.
SE ESSERE STATALI CONTA (POCO)
Per Giuseppe Bono, ceo di Fincantieri, non importa essere pubblici o privati, quello che davvero conta è essere dei campioni dell’industria, possibilmente europei: “Essere statali non vuol dire nulla. Bisogna funzionare, competere e diventare dei campioni europei. Noi di Fincantieri siamo statali ma molte cose le facciamo da soli”, ha spiegato il manager, ascoltato per l’occasione dall’azionista Cdp, rappresentata da presidente Claudio Costamagna. Chiarita la questione statalismo, ha puntellato Bono, manca l’ingrediente essenziale. Quale? “La cultura dell’impresa. Questo Paese deve recuperare il senso del fare impresa. Negli altri Paesi fare impresa è visto sempre come un’opportunità. Qui no. Ecco cosa manca davvero, senza andare su altri dibattiti. La verità è che oggi abbiamo una legislazione che è anti-impresa, punto”.
I PALETTI DELLA CDP
Ovviamente non poteva mancare un inciso di chi lo Stato nel sistema economico lo rappresenta, ovvero la Cassa Depositi e Prestiti. Costamagna, presidente Cdp, ha inteso delineare il perimetro d’azione della Cassa, controllata all’80% dal Tesoro: “L’azione di Cassa depositi e prestiti è improntata dalla promozione con una chiara consapevolezza di quelli che sono i limiti e le potenzialità: oggi Cdp ha una struttura che si fonda su tre paletti molto chiari: Roma, Bruxelles e Francoforte, con uno statuto molto chiaro e con limiti precisi sulle decisioni di investimento”. Per esempio investire in “società industrialmente solide ma finanziariamente sconquassate”.